giovedì , 21 Novembre 2024
In Valle Stretta, sopra Bardonecchia | Ph. Matteo Pavana

Un arcipelago montano che non è in vendita. Intervista a Marco Albino Ferrari

La montagna come luogo d’elezione, luogo dell’anima, luogo da raccontare nella sua essenza più vera e nascosta. Ma anche montagna come scelta di vita oltre che di lavoro e approfondimento: ed ecco allora la decisione di trasferirsi in un maso in Trentino e di radicarsi nel territorio che per decenni ha scalato, camminato e raccontato dalle pagine dei libri o dalle riviste. Giornalista, scrittore e divulgatore della cultura delle Alpi, Marco Albino Ferrari ha accettato di farsi intervistare da Montanarium a proposito del suo spettacolo “La neve delle rondini” (andato in scena all’interno della 13esima edizione della rassegna Il Grande Sentiero che Lab 80 organizza a Bergamo e provincia ogni anno) per toccare insieme il significato dell’abitare la montagna tra ieri e oggi, tra contraddizioni, scelte individuali e auspicate prese di posizione istituzionali che segneranno inevitabilmente il futuro delle Alpi. Ma quale futuro, e secondo quali paradigmi?

Marco albino Ferrari, partiamo dalla dimensione personale. Da un paio d’anni sei diventato “montanaro di residenza”: come mai questa scelta, e cosa ha comportato?

Andare ad abitare in montagna è stato il frutto di una scelta individuale maturata ormai due anni fa, quando ho ristrutturato un vecchio maso circondato dai boschi nella Valle del Sarca, in Trentino: essendo una decisione personale, ovviamente ne sono molto contento. E qui si apre un tema da non sottovalutare, quello della scelta, appunto: scegliere un percorso significa determinare il proprio futuro, e questo porta con sé un entusiasmo e uno slancio tali da edulcorare, talvolta, situazioni che oggettivamente possono essere dure o difficili. Tutto sembra più luminoso, accogliente e abbordabile quando lo scegli, la difficoltà nasce dai cambiamenti imposti, e questo vale anche per l’abitare in montagna: io sono un “convertito” e come tale probabilmente sono più fanatico rispetto a chi questa condizione magari la subisce. Le stesse difficoltà che alcuni sono disposti ad accettare volentieri in nome della propria scelta, per altri rappresentano difficoltà insormontabili: il freddo, il vivere costantemente in pendio, metafora stessa dell’esperienza montana…

Insomma non credo che esista una prospettiva univoca e oggettiva dell’abitare in montagna. Si può, semmai, provare a tracciare delle linee comuni che avvicinano le esperienze di chi ci vive, per scelta o meno.

Tracciamole, allora, queste linee: secondo te cosa significa, oggi, abitare in montagna?

Oggi la montagna è un luogo abbastanza estremo e viverci significa andare incontro a difficoltà oggettive che, come dicevamo poc’anzi, sono accettabili nella misura in cui le si sceglie o in cui rappresentano la contropartita accettata di una condizione che si ritiene favorevole: maggiore contatto con la natura, lontananza dai rumori e dallo stress, eccetera. Se escludiamo le grandi centrali del turismo montano come Courmayeur o Cortina, abitare in montagna oggi significa vivere in un luogo che ha subito un forte spopolamento e una forte rinaturalizzazione rispetto a una settantina di anni fa, quando ancora esisteva il mondo degli alpigiani. Quel mondo oggi è tramontato, e quindi la società alpina si è rarefatta: ci sono pochissimi servizi e molti meno abitanti, spesso anziani, mentre la selva è sempre più assediante. Probabilmente è dal Basso Medioevo o giù di lì che gli animali selvatici non arrivavano così vicino agli abitati: è un dato inconfutabile che parla di una terra sostanzialmente abbandonata, inselvatichita.

C’è poi la questione sociale. L’onda lunga dello spopolamento si è abbattuta su intere generazioni di anziani che hanno visto i propri giovani partire e andarsene: per queste persone, l’arrivo di nuovi abitanti – idealizzanti, spesso inesperti – è quasi una sottolineatura del proprio fallimento, perché rimarca la propria incapacità di trasmettere un’eredità. Eredità che viene raccolta da altri, sconosciuti.

Da qui, spesso, discende la chiusura da parte dei montanari verso i nuovi arrivati. Io sono stato fortunato, ho trovato una comunità accogliente e gentile seppur rarefatta, ma non è sempre così: in molte vallate prevale la diffidenza, e questo rende ovviamente più difficile per chi viene da fuori insediarvisi. Una volta messi in conto questi aspetti, ecco allora che abitare in montagna cessa di essere una scelta solo materiale: diventa un modo di vivere, che consente anche di rinunciare alla condizione omologante imposta dal vivere urbano.

Montagna come spazio di libertà e autodeterminazione, dunque?

Vivere in città significa essere costretti, più che altrove, a seguire ritmi e convenzioni imposti dalla collettività: lavorare, partecipare al sistema, guadagnare per consumare. A conti fatti, però, se si guarda dall’esterno ci si rende conto che in fondo certi consumi non sono poi così essenziali. E allora ben venga una contrazione dei guadagni, se è ripagata da una vita meno stressante e meno vincolata. Attenzione però: non sto parlando di decrescita felice teorizzata sul piano generale, che comporterebbe cambi radicali nella società e un cambio di paradigma collettivo difficile da immaginare, e da valutare con azioni compensative su larga scala. Parlo di scelte individuali. In montagna scegli di non essere garantito, di avere meno “tempo libero” e meno tutele, ma al tempo stesso scegli di determinare il tuo tempo, e così facendo ribalti i valori che la modernità ti ha dato. La frugalità diventa in un certo senso una nuova forma di ricchezza.

Oggi spesso si usa la categoria dell’eroismo per raccontare la dimensione di chi vive e lavora nelle terre alte. Tu cosa ne pensi di questa narrazione?

Alpinismo, agricoltura, scelte anticonformiste: è vero, l’eroismo ricorre in tantissimi discorsi sulla montagna. Intanto, però, bisognerebbe definire cos’è un eroe: l’eroe classico era colui che vinceva le Olimpiadi e con le sue gesta glorificava gli dei, l’eroe cristiano era chi si sacrificava per un ideale di altruismo e di fede… Oggi, quella dell'”eroe” è una categoria postmoderna che si usa per indicare genericamente chi va incontro a grandi difficoltà e le supera.

In questo senso, forse, chi va a vivere in montagna ha un che di eroico, ma resta sempre un’etichetta forzata. Mi pare che oggi la retorica dell’eroe sia usata più che altro come uno slogan pubblicitario applicato alla montagna: non ne descrive la complessità, ma ne banalizza la sostanza.

Nel tuo spettacolo “La neve delle rondini” racconti le montagne fuori moda, lontane dalla retorica e pure dalla memoria, montagne vissute e subite nel loro coacervo di difficoltà e intensità. Ti va di dire qualcosa in più sulla genesi di questo spettacolo, su ciò che si propone di portare al pubblico?

Grazie all’esperienza di direzione di Meridiani Montagne, fondato nel 2002, ho avuto la possibilità di viaggiare moltissimo sulle Alpi e di raccogliere un’infinità di storie, immagini, impressioni dalle vallate, dai paesi, dalle borgate. “La neve delle rondini” (che vede i miei testi accompagnati dalle musiche di Francesco Zago e dal montaggio video di Mara Colombo) è in un certo senso la condensazione di questa esperienza e va a sviluppare un percorso dapprima storico e poi di riflessione sull’attualità. Storico, perché racconta le Alpi degli alpigiani e l’antica società montanara andata tramontando negli ultimi decenni, e lo fa attraverso le storie dimenticate che lo rappresentano: storie come quella delle balie da latte del bellunese, giovani madri montanare che scendevano in città per allattare i figli delle famiglie nobili, stigmatizzate da chi vedeva nella pratica un esercizio di mercificazione e al tempo stesso vittime del pregiudizio svilente della città sulla montagna. Nella seconda parte dello spettacolo, invece, si parla di come le montagne si sono trasformate e di che futuro le attende.

E che futuro le attende?

Finora ha prevalso una visione novecentesca della montagna, cioè un modello di gestione e sviluppo che continua a puntare sulle stesse iniziative imprenditoriali e turistiche da un lato, e dall’altro, invece, mantiene vivo il mito stereotipato e idealizzato della montagna selvaggia quale luogo felice e contrapposto alla città: una narrazione falsificata, ma funzionale per continuare a nutrire l’industria del turismo montano e le sue contraddizioni.

La montagna non è un luogo felice a priori, è un luogo in cui si vivono con forza le difficoltà connesse a un abbandono sia fisico sia culturale. Le prospettive del cittadino e del montanaro rispetto alla montagna sono diverse: per i primi, c’è l’idealizzazione astratta di questo mondo “selvaggio”, una forma di sfruttamento immateriale per creare un mito che sia funzionale agli interessi di altri. Per i secondi, invece, c’è una vita fatta di azioni e compromessi con un ambiente difficile.

Quanto al futuro, tutto dipende da questi mesi. Siamo a un punto di svolta, in attesa di una legge sulla montagna e delle decisioni della politica istituzionale. Credo che , oggi come oggi, la vera minaccia per le Alpi sia la continuità con il passato, con questa visione novecentesca di sfruttamento e idealizzazione.

Hai parlato di politica, di legge per la montagna e di visione di sviluppo novecentesca. Che ruolo e che possibilità avrebbero oggi le istituzioni per cambiare rotta? Cosa potrebbero fare, e cosa non fanno (o fanno male)?

Posto che è necessario fare una grande distinzione tra il piano locale e quello istituzionale, e posto il fatto che molto dipende dalle singole amministrazioni, ritengo che ora il grosso della partita si giochi a livello nazionale. Avremmo innanzitutto bisogno di una legge nazionale sulla montagna che agisca su più ambiti, ad esempio favorendo l’accorpamento delle proprietà frazionate: questa è una vera piaga per chi vuole recuperare vecchi edifici, perché l’enorme frammentazione fondiaria costringe la montagna ad accartocciarsi sempre di più su un passato che non prevede sviluppo. Ma servirebbe anche una legge che favorisca il recupero delle vecchie case e che limiti fortemente le nuove costruzioni di impianti e infrastrutture che non solo devasteranno intere aree. L’esempio lampante ce l’abbiamo sotto agli occhi con ciò che sta avvenendo in preparazione delle Olimpiadi Invernali Milano Cortina 2026…

Immagino tu ti riferisca alla costruzione della nuova pista di bob nella conca ampezzana…

È esattamente quello che intendevo quando parlavo di visione novecentesca della montagna. Ci rendiamo conto che si costruirà una pista da bob da zero – disciplina praticata peraltro solo da 14 atleti in Italia – in uno dei luoghi più belli e fragili delle nostre montagne, spendendo oltre 60 milioni di soldi pubblici e distruggendo un intero ambiente, quando invece si sarebbe potuta utilizzare una pista già presente, anche se non vicine? Avremmo potuto cavalcare il momento di transizione per immaginare nuovi modelli di sviluppo montano, e farci pregio della rinuncia alla nuova pista da bob in nome del cambiamento. Sarebbe stato un segnale fortissimo di slancio verso quel futuro di cui tutti parlano… Parlano e basta, però. E un discorso analogo si potrebbe fare a proposito delle piste da sci, il cui numero cresce continuamente a prescindere dal numero di sciatori, che rimane invariato. È una battaglia tra concorrenze e interessi che si gioca sulla pelle dei territori.

Che consigli ti sentiresti di dare a chi oggi sta pensando o progettando di andare ad abitare in montagna?

Consiglierei innanzitutto di non cedere a decisioni impulsive o casuali: questo arcipelago alpino, composto da tante isole quante sono le vallate, è molto diversificato ed è importante scegliere bene dove andare in relazione alle proprie aspettative e ai propri bisogni. Prendetevi un’estate, fatevi un giro sulle Alpi, vedete quali territori vi chiamano e poi guardatevi attorno, visitate e osservate i paesi, le frazioni e le borgate. In montagna non funziona come in città, le Alpi non sono una vetrina da spulciare con l’aiuto di un’agenzia immobiliare, bisogna uscire dal web e dall’auto e guardarsi attorno, “sentire” il luogo. Il mio consiglio è partire dalla casa: scegliete quella che vi risuona dentro, anche se non fosse in vendita. Partite da lì, parlate con la gente, conoscete le persone, fatevi misurare dalla comunità. Fate lavoro di persuasione e fate capire che voi, lì in quella casa, ci vorreste abitare, che non sarà solo il ritiro di qualche weekend estivo ma che è invece un sogno e progetto di vita.

Abitare in montagna non può essere un capriccio immediato: è una scelta che richiede tempo, dedizione, fatica. Più lunga l’attesa, più forte il convincimento. Se resisterete, significherà che è la scelta giusta per voi. “Noi non siamo in vendita a voi cittadini”, vi diranno i montanari, e hanno ragione: per loro la casa è una questione di continuità affettiva, è un passare il testimone. La montagna non è un mercato. E non è in vendita.

Foto in apertura: In Valle Stretta, sopra Bardonecchia | Ph. Matteo Pavana

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