giovedì , 21 Novembre 2024

Quando il culto dei paesi è un po’ fetish

A volte mi pare che ci sia un certo gusto del fetish nello sguardo con cui ci si approccia ai paesi abbandonati, alle case diroccate, ai cimeli di vite passate altrui nei territori montani e rurali.

E’ come se ci sentissimo liberi di violare quei luoghi, di allungarci dentro gli occhi, di entrare a curiosare: sono abbandonati, dopotutto, no?

E’ il gusto fetish di osservare la decadenza e renderla accattivante, di studiarla morbosamente, di cavarci fuori significati presunti e retorica spiccia. E’ il voyeurismo della paesologia, che usa però paesi e baite e malghe e case come scenario per il proprio estro poetico più che con il desiderio reale di rendere loro memoria, rispetto e dignità.

Perché in quei luoghi ci ha vissuto, amato, sperato, sofferto, gioito gente reale. Quei luoghi sono stati catalizzatori di esistenze minute, certo, ma non per questo inconsistenti. Ci sono storie raccolte tra quei muri e ci sono state vite tra quelle stanze, mani che hanno toccato e usato quei vecchi attrezzi e cucito quelle tendine sbadite e lavato quella brocca sbeccata.

C’è qualcosa di intimamente irrispettoso – mi pare – nell’utilizzare questi luoghi come scenografia per la propria manifestazione, spesso senza neanche chiedere permesso, o come mero soggetto per le proprie foto emotive e accattivanti. Come scrive l’antropologa Anna Rizzo, “la modalità di rapina raccontata come atto poetico non aiuta“.

E i social in questo non aiutano: è tutto un fiorire di post e reel e consigli su “vieni a scoprire questo borgo abbandonato pazzesco a sole due ore da Milano“, e mi domando se questo non sia sotto sotto l’altra faccia del marketing aggressivo che promuove apertamente i luoghi.

L’uno li pompa a gran voce con effetto Disney, l’altro ne celebra sussurrando la decadenza con effetto Tim Burton, ma nessuno dei due li vede come luoghi vissuti. Solo come mere scenografie.

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