Come si racconta la montagna del presente? Cosa ci insegnano i suoi mutamenti ambientali, sociali, climatici ed economici? Che cosa ci dice della nostra attualità questo ambiente vicino e lontano, abusato e spesso incompreso, e il modo in cui viene mostrato e raccontato? È proprio sull’osservazione e sulla narrazione della montagna in tutte le sue sfaccettature – principalmente quelle antropiche, connesse agli impatti di chi vi abita o vi transita per turismo o per lavoro – che Pietro Lacasella, giovane antropologo e divulgatore e coordinatore del seguitissimo profilo social AltoRilievo / Voci di Montagna, orienta da qualche anno il suo sguardo: ed è uno sguardo obiettivo e rispettoso, mai invadente, quello che rivolge alle terre alte italiane. Lo sguardo di chi le ama profondamente e prova a comprenderne le interconnessioni, le peculiarità, le sfide verso il futuro.
Pietro, la montagna in tutte le sue sfaccettature è parte integrante e primaria del tuo lavoro di ricerca e divulgazione. Come hai iniziato? Come ti sei avvicinato al mondo delle terre alte?
Alla montagna non ho avuto bisogno di avvicinarmi, perché l’ho frequentata fin da bambino: la casa dei miei bisnonni è ad Asiago, sull’Altopiano dei Sette Comuni. Mia mamma avrebbe sempre voluto trasferirsi lì definitivamente, ma visto che mio padre non era molto dell’idea mi sono trovato a vivere due dimensioni contemporaneamente: quella urbana (sono di Vicenza) e quella alpina, perché ogni occasione era buona per salire in montagna. Poi, crescendo e anche grazie a una serie di letture specifiche, il mio sguardo è “migrato” sempre di più verso le terre alte: le radici le ho piantate in montagna, e tutto il mio percorso si è incentrato sugli sviluppi sociali e antropologici della montagna, a partire dal mio territorio.
Quando parlo di letture, intendo soprattutto due autori: Walter Bonatti e Mario Rigoni Stern. Il primo rappresentava la mia aspirazione alpinistica, mentre il secondo dava un taglio poetico alla narrazione della montagna: i suoi libri mi hanno portato a guardare con sguardo rinnovato i territori che frequentavo fin da bambino, e mi hanno dato la consapevolezza della ricchezza insita anche nei luoghi “dietro casa”
Pian piano, questa passione ha cominciato a diventare un lavoro: ho una formazione antropologica e lavoro con singole realtà, festival, giornali che gravitano attorno al mondo della montagna, e a breve inaugurerò una nuova realtà editoriale proprio su queste tematiche, l’AltraMontagna, che seguirò personalmente come curatore. Oggi mi divido in due: una parte dell’anno la trascorro ad Asiago, l’altra a Vicenza. In pratica seguo il ciclo della transumanza, perché la casa di montagna è vecchia e non è abitabile in inverno se non a fronte di un enorme dispendio energetico. Fosse per me, tuttavia, ci starei volentieri più tempo.
Cosa rappresenta la montagna, per te?
Non è una domanda semplice, perché avendola sempre vissuta in maniera non continuativa, faccio fatica a considerarla qualcosa di completamente scollegato dal resto della penisola, qualcosa da definire come un “altro”. La montagna per me è un territorio con specifiche peculiarità geografiche e antropologiche che mi interessano particolarmente. Mi piace confrontarmi con le caratteristiche di questo ambiente perché offrono numerosi filoni di analisi e comprensione. L’Italia è stretta e lunga, attraversata da montagne e bagnata dal mare: i diversi ambienti sono realtà osmotiche che devono dialogare l’una con l’altra… E infatti lo fanno. E’ interessante capire come lo fanno, e come cambia questo dialogo nel tempo.
Poi, per me la montagna è anche lo spazio del tempo libero, dell’alpinismo e dell’arrampicata. Queste due dimensioni – lo svago e l’avere la casa di famiglia in quota – mi hanno portato a indagare la montagna nel suo complesso.
Soprattutto, mi interessano molto i modi in cui le persone hanno interpretato l’ambiente montano per renderlo un territorio abitabile.
Nel tuo lavoro di divulgazione e sensibilizzazione, parli spesso delle connessioni tra montagna, turismo, grandi opere e clima. Sono temi che ti stanno particolarmente a cuore? E soprattutto: quali connessioni, e perché?
Io parlo spesso di turismo, perché verso la fine dell’Ottocento il turismo ha iniziato a diventare l’economia trainante di molti territori alpini. Per tante vallate quella turistica è ormai una monocultura, quindi è impossibile dettare uno sguardo antropologico sulle Alpi senza considerare questa variante economica. Spesso creo connessioni con il clima che cambia perché turismo che ha preso forma sulle nostre montagne ha preso piede soprattutto alla fine degli anni Cinquanta, quando c’erano caratteristiche climatiche completamente differenti rispetto a oggi: erano anni in cui nevicava, in cui c’erano inverni lunghi e freddi, e c’era quindi la possibilità di sviluppare un forte settore invernale.
Oggi, alla luce dei cambiamenti climatici, è necessario ripensare alla questione. Continuare a proporre attività che si adattavano a scenari climatici completamente differenti da quelli attuali è un investimento poco lungimirante, che comporta ingenti spese pubbliche a favore di sport e attività che rischiano di tramontare. Personalmente, non sono per l’eliminazione delle piste da sci: ma in Italia abbiamo oltre 6000 km di piste e il 90% di esse viene oggi innevato artificialmente. E’ davvero sostenibile? Non mi pare. Al tempo stesso, oggi chiudere le piste da sci da un giorno all’altro sarebbe da disgraziati, perché danno da vivere a moltissima gente: bisognerebbe semmai pensare a costruire un’offerta alternativa da qui in avanti. Invece, si continuano a investire milioni di euro a favore di un tipo di turismo ormai vecchio, obsoleto.
Recentemente, insieme ad altri colleghi e autori (come Marco Albino Ferrari) ti sei battuto molto sulle contraddizioni delle grandi opere in montagna, non da ultima la “questione pista di bob” a cortina, generando anche una certa massa critica dal basso a riguardo. Secondo la tua esperienza, oggi c’è maggiore sensibilità su questi temi rispetto a qualche anno fa?
Sicuramente una sensibilità diffusa sulle tematiche ambientali e di tutela del paesaggio sta prendendo forma e sta coinvolgendo sempre più persone. Bisogna essere consapevoli di vivere un periodo di transizione, e ogni transizione comporta un dibattito: non mi attendo solo pareri concordi, ma – per restare nell’esempio che hai fatto – la questione della pista di bob di Cortina e il movimento di opinione che si è creato attorno alla vicenda dimostra che la gente inizia a essere consapevole della necessità di un cambio di passo.
Con le amministrazioni è diverso. Ci sono amministratori molto lungimiranti e attenti, ma fanno parte di quella minoranza che spesso non è considerata granché neppure sui giornali, o a cui non viene data voce. Di certo, il movimento di opinione sulla “questione pista di bob” ha fatto sì che ci fosse un riflettore perennemente puntato sulle azioni messe in campo a riguardo, e ha evitato che si prendessero vie poco trasparenti.
C’è poi da dire un’altra cosa. Gli effetti dei cambiamenti climatici e della riduzione drastica della neve naturale in quota stanno diventando così evidenti che continuare a investire su un certo tipo di turismo e di infrastrutture fa storcere il naso anche agli stessi sciatori… Anche perché si parla sempre di cifre mastodontiche, milioni di euro (spesso pubblici) per tenere in piedi un’economia che va calando, soprattutto in un periodo storico in cui la crisi economica si fa sentire.
A Cortina mi dicevano: “124 milioni di euro per una pista di bob per poche decine di atleti, e noi invece non abbiamo neanche i servizi essenziali, come sanità o trasporti?”. Ecco, il punto è proprio questo.
Abbiamo parlato di turismo. Secondo te, quali sono le problematiche principali che incontrano i territori montani nel promuovere il turismo?
Penso che, da parte dei territori, spesso ci sia una grande incapacità di sapersi raccontare. Ecco perché ultimamente, dal punto di vista turistico si tende spesso a creare un’offerta di tipo omologante: ponti tibetani, voli dell’angelo, passerelle sospese… Tutti espedienti che attirano pubblico, certo, ma d’altro canto non raccontano affatto il territorio, sono dei semplici artefatti calati su di esso. Quindi in montagna si incontra un’offerta turistica sempre più ludica e ricreativa, non culturale.
Questo è un grande problema, credo. Significa non riuscire, attraverso il racconto, a rendere attraenti gli elementi e le peculiarità che sono proprie di un determinato territorio e che lo rendono unico. Per definizione, il turista si muove alla ricerca di qualcosa di nuovo rispetto al contesto da cui proviene e ai paesaggi della propria quotidianità: se però comincia a trovare un’offerta sempre simile e sempre uguale a se stessa in qualsiasi posto, che cosa ci verrà a fare?
Di che cosa avrebbe invece bisogno oggi la montagna per promuoversi?
Penso che siano necessarie persone consapevoli del territorio che stanno promuovendo, che possono vantare un legame forte con esso e che siano in grado di narrare le sue peculiarità, cioè ciò che lo rende unico e diverso.
Le montagne sono un caleidoscopio. Ogni valle – in base alla larghezza, all’esposizione, alla storia – ha le proprie caratteristiche e ogni comunità ha dato la propria interpretazione del territorio: ci sono punti comuni, ma anche tante strade diverse, imboccate per rendere vivibili territori diversi. Questo non può essere ignorato o appiattito.
Penso anche però che servano persone abili a muoversi e raccontare sui social network: oggi buona parte della comunicazione passa da lì, quindi è necessario che le APT sappiano sfruttare questi canali con la dovuta accortezza e con intelligenza e lungimiranza. Per esperienza personale, muovendomi anche io molto sui social, mi sono accorto che non è vero che le persone “vogliono” solo foto di ponti tibetani o reel dell’aprés-ski sulle piste: al contrario, cercano storie più vicine a un turismo alternativo, dolce, che crea impatto limitato sui territori.
Come strategia a breve termine forse funziona anche il ponte tibetano, ma l’effetto “parco divertimenti” va bene una volta, due, tre… Poi si cerca altro, si cambia, si guarda verso altri stimoli. Se invece ci si affeziona a un territorio, alla sua gente, ai prodotti della terra, la questione cambia. Affezionarsi a un territorio significa affezionarsi a un’esperienza più vasta, che si rinnova ogni volta e che crea quindi un legame tra territorio-residenti-turisti tale per cui quel turista sarà portato a tornare. Insomma, far conoscere un luogo oltre l’effetto luna park significa spostare la narrazione della montagna su un altro piano di significato, un piano di emozione e conoscenza che porta con sé il rispetto, il desiderio di tutelare un paesaggio e un luogo che si è imparato ad amare.
Il tema del ripopolamento delle terre alte ricorre spesso nelle narrazioni attuali sulla montagna: dopo decenni di spopolamento e di abbandono, vedere gente che sceglie di tornare a vivere in quota è un bel segnale di speranza. Secondo la tua esperienza, basta il turismo – anche lento e rispettoso – per ripopolare le montagne?
Non so dire se basti o meno il turismo: personalmente, non credo. Penso tuttavia che il presente ci offra un grande vantaggio per ripensare nuovi modi e nuovi luoghi per abitare, cioè la maggiore connettività e lo smart working, che potrebbero aiutare a ridurre i fenomeni di abbandono. Il termine “metromontagna”, usato per definire quei territori ibridi nati dall’osmosi tra montagna e pianura – racconta un po’ questo fenomeno: cioè città e terre alte non opposte e antagoniste ma strettamente connesse. Insomma, diciamo che nel complesso le disponibilità tecnologiche del presente possono consentire esperienze di vita anche in territori marginali.
Tuttavia, non voglio idealizzare un fenomeno di cui non conosco numeri e dati, perché sono anche consapevole di quanto – almeno in Italia – siano ancora in voga strutture sociali ed economiche che rendono difficile la vita stabile in montagna: penso alle università che obbligano gli studenti alla frequenza, o alla poca flessibilità di molte aziende in termini di smart working.
Penso che l’Italia sia un paese che fatica a intraprendere nuove strade culturali, un paese ingessato nelle sue vecchie abitudini, incapace di cogliere le opportunità offerte dai periodi di crisi. L’abbiamo visto con la pandemia: dalla situazione di grande difficoltà sono nate nuove occasioni, nuove possibilità di immaginare il rapporto tempo-luogo-lavoro, eppure una volta finita l’emergenza è tornato tutto come prima. Dopo l’entusiasmo iniziale, infatti, mi pare si sia rallentato anche il fenomeno di “corsa alla montagna”. E questo è un vero peccato.
Un’ultima domanda: da divulgatore e autore sulla montagna, cosa ti sentiresti di consigliare a chi volesse andarci a vivere, e a chi invece volesse iniziare a frequentarla?
Per chi volesse andarci ad abitare, consiglierei di farlo con un progetto a lungo termine in testa, e con un briciolo di consapevolezza. Se frequentata in modo sporadico, la montagna è molto bella: ma viverci è un altro paio di maniche, mette a confronto con situazioni anche climatiche impegnative, a lunghi periodi di silenzio. Il passaggio dalla città al contesto minuto di un paese di montagna può essere traumatico. Serve quindi un progetto che renda la permanenza in quota sostenibile, soprattutto a livello economico.
A chi invece volesse iniziare a frequentarla, direi di provare a trasformare i “territori di transizione” (cioè la media montagna che si attraversa per raggiungere gli scenari montani “wow”) in territori di visita turistica: hanno altrettante suggestioni da offrire e permettono di decongestionare i flussi turistici. Inoltre, mostrano spesso una montagna non patinata: una montagna vera, con tutte le sue contraddizioni.