E se la rinascita e la rivincita delle aree interne d’Italia passassero dai giovani? Cosa possono dare le zone marginali del nostro paese agli under 40, e perché un giovane oggi dovrebbe guardare a questi territori con interesse? Ancora, e se si potesse costruire una narrazione di queste zone non edulcorata né idealizzata, ma capace di raccontare l’oggettività di aree spesso vuote e disabitate, ma pronte per essere riempite e valorizzate da energie e idee innovative?
Ne ho parlato con i ragazzi e le ragazze della Rete RIFAI (Rete Italiana giovani Facilitatori Aree Interne), che in questa appassionata e approfondita intervista collettiva mi hanno raccontato gli intenti e le riflessioni che la rete porta avanti nei territori interni del nostro paese, tra progetti di innovazione sociale e occasioni di imprenditoria sostenibile. Alle mie domande hanno risposto Giulio Nascimben (Segreteria organizzativa di RIFAI, Friuli Venezia Giulia), Fabiana Re (Comunicazione di RIFAI, Piemonte), Maria Arnolfo (Distretto Culturale Montagna Futura, Piemonte) e Silvia Spinelli (Università del Camminare, Marche).
Parliamo brevemente di Rete Rifai: cos’è, come nasce, di che cosa si occupa?
(SILVIA) RIFAI è una realtà che oggi conta più di 80 soci, per la maggior parte sotto i 35 anni, e che intende diventare il megafono delle esigenze, delle necessità, dei sogni e delle sfide dei giovani che vivono nelle aree marginali italiane. RIFAI è formata da associazioni territoriali e singole persone attive nelle aree interne. Ad oggi, la rete conta diversi gruppi regionali costituiti intorno a realtà di riferimento in Piemonte, Friuli Venezia Giulia, Sicilia, Lombardia e Marche, mentre in Emilia Romagna, Veneto e Valle d’Aosta sono in via di costituzione.
Tutti noi crediamo nella “Rivincita delle aree interne“: siamo convinti che sia possibile promuovere una visione propositiva e innovativa dei territori che viviamo investendo proprio su di noi, i giovani della aree interne. L’idea di RIFAI è nata dalla necessità territoriale e sociale di affrontare le sfide e le problematiche specifiche di queste zone.
Nel 2021, con la creazione del Manifesto di Valloriate, in occasione del Nuovi Mondi Film Festival, si è riconosciuta l’importanza di dare voce alle esigenze, alle necessità e ai sogni delle persone che vivono in queste aree, soprattutto giovani tra i 18 e i 40 anni. Le aree interne sono spesso caratterizzate da un numero ridotto di abitanti e risentono di problemi legati all’isolamento geografico, alla mancanza di infrastrutture adeguate, alla carenza di opportunità lavorative e culturali, e alla percezione di essere marginalizzate rispetto alle zone più urbanizzate. Ecco, il nostro obiettivo è ribaltare questa situazione.
Cosa si intende per “aree interne” e perché, secondo voi, oggi è importante occuparsene?
(GIULIO) Attraverso il termine “aree interne” si intendono tutti quei territori caratterizzati da una marginalità rispetto all’offerta di servizi essenziali alla cittadinanza quali istruzione, trasporti e sanità, ovvero, in breve, lontananza da scuole, ferrovie e ospedali. Queste aree spesso e volentieri coincidono con le zone montane e collinari lungo le Alpi, gli Appennini e le nostre isole.
Questa categoria di territori assume oggi una particolare rilevanza perché il modello urbano-centrico che vedeva nelle città l’unico elemento trascinante per lo sviluppo dell’intero Paese è entrato in crisi mostrando tutti i propri limiti.
Accanto a delle aree urbane sovraffollate e con prezzi sempre crescenti, esistono una grande quantità Comuni con andamento demografico negativo e con grossa disponibilità di terreni e abitazioni, ma che appunto fanno i conti con la marginalità evidenziata prima. Proprio per le loro caratteristiche, le aree interne pongono oggi grandi sfide, insieme a significative opportunità: rappresentano luoghi unici in cui costruire innovazione e ricostruire filiere legate al territorio, come ad esempio quella del legno o della pastorizia, ripensando a un modo di vivere in cui la garanzia dei diritti base di cittadinanza e le opportunità di realizzazione di sé possano emanciparsi e sperimentare nuovi modelli di esistenza, più in linea con l’ambiente e il paesaggio in cui nascono.
“Aree interne” spesso significa spopolamento, carenza di servizi, povertà di offerta culturale ed educativa: è davvero così? Quali sono le problematiche principali che secondo voi vivono le aree interne e i territori montani e dell’entroterra italiano?
(MARIA) Sicuramente è vero che per anni le aree interne hanno subito un massiccio spopolamento, che ha avuto come conseguenza un calo dei servizi e che ha, comprensibilmente, reso le persone rimaste un po’… stanche. Senza negare queste difficoltà, vogliamo offrire una visione sincera delle aree interne: negli ultimi anni la percezione e l’attenzione generale verso questi territori è cambiata e ha fatto nascere molte realtà di rigenerazione e animazione territoriale in tutta Italia, consapevoli che il lavoro con comunità che si sono sentite messe in disparte per molti anni non è semplice né tantomeno veloce. Bisogna riattivare la capacità di sognare. Cercando di essere concreti, ad oggi penso che l’offerta culturale ed educativa nelle aree interne sia ricca e variegata. Anche solo nella Rete Rifai abbiamo molti esempi virtuosi di eventi, festival, residenze e workshop in tutta Italia.
Tuttavia siamo lontani da una situazione idilliaca, alcuni problemi rimangono: mancano quasi completamente i collegamenti e i trasporti pubblici, rendendo obbligatori gli spostamenti in macchina, raggiungere i paesi delle aree interne è sempre un’avventura: per quanto divertente per una vacanza, disincentiva il trasferimento di famiglie con bambini o ragazzi!
Spesso inoltre nei paesi siamo di fronte a una desertificazione commerciale, non ci sono bar o piccoli alimentari, per fare la spesa quindi è sempre necessario spostarsi di qualche chilometro, in macchina, che è scomodo per chi è giovane, ma soprattutto è un forte limite per gli anziani che non sono più indipendenti. In generale, per vari motivi, scarseggiano i servizi di cura per le persone anziane, rendendo la scelta dei familiari di rimanere sul territorio più difficile perché non possono contare su molti servizi di sostegno. Parlando poi con chi si è da poco trasferito nelle aree interne, abbiamo notato come spesso non sia così facile e immediato trovare una casa da comprare o affittare, paradossalmente pur vedendo case vuote tutto l’anno! Insomma non può essere tutto perfetto, la strada intrapresa per la rigenerazione delle aree interne è fatta di cambiamenti lenti ma inesorabili.
E quali sono invece le potenzialità, il valore e le prospettive di questi territori? In altre parole: perché restare?
(SILVIA) Vogliamo sfatare la narrazione che racconta le aree interne come territori spopolati e senza futuro, perché sono in realtà ricche di vantaggi e opportunità per i giovani. Basti pensare all’ambiente naturale e alla qualità della vita o al poter vivere in comunità strette e solidali. Anche dal punto di vista professionale le aree interne offrono ai giovani spazi per l’innovazione, l’imprenditorialità e lo sviluppo di nuove progettualità, ad esempio rendendo il patrimonio culturale e l’artigianato opportunità economicamente redditizie o lavorando sulle nuove forme di turismo lento.
(MARIA) Il valore aggiunto di questi territori è sicuramente l’accesso alla natura e la possibilità di sperimentare una vita lenta.
La montagna non deve essere vista come un luogo di Bon Sauvage in cui il tempo si è fermato: la vita nei paesi è moderna come in città, ma è rimasto intatto il valore umano della comunità. Forse le “difficoltà” del luogo, come ad esempio pochi luoghi di aggregazione, mancanza di trasporti o di servizi alla persona, rendono più spontanea la solidarietà che in altri contesti si riserva solo ai familiari.
Si potrebbe azzardare e dire che in paese la comunità diventa una famiglia allargata, pur con tutti i limiti delle famiglie: ma questo senso di appartenenza e di sostegno, anche se a volte faticoso, è una ricchezza difficilmente trovabile altrove. Inoltre la possibilità di fare una passeggiata immersi nella natura, poter mangiare le verdure del proprio orto, o comunque di avere accesso a ortaggi genuini, aiutano a creare un equilibrio più sano con la vita frenetica di tutti i giorni. Non vogliamo creare una visione idilliaca, anche qua arrivano le scadenze e la casella delle mail si riempie in fretta, ma decomprimere lo stress facendo una passeggiata nel bosco dietro casa è tra i vantaggi che preferiamo!
Voi vi occupate soprattutto di sguardo giovane sulle aree interne: secondo la vostra esperienza e le testimonianze che avete incontrato e raccolto, tra i giovani sta cambiando qualcosa nel relazionarsi a questi territori? Sono sempre territori da cui fuggire, o sono territori a cui tornare e in cui restare?
(MARIA) Sono territori in cui tornare, di questo siamo certi. Forse per tornare con uno spirito più ottimista e per apprezzare veramente i lati positivi che questi territori sanno regalare, bisogna prima fuggire. Vivere in città mentre si studia, viaggiare, sperimentare per tornare con occhi nuovi, senza pregiudizi. Sia tra chi vive stabilmente in montagna, che tra i giovani che partecipano ai nostri progetti abbiamo notato che i ragazzi hanno uno sguardo lucido e ottimista sulle possibilità di questi territori. Certo non tutti i ragazzi under 35 vogliono trasferirsi in montagna, ma tra le persone incuriosite vediamo che è presa in considerazione come possibilità concreta. Questo succede sicuramente grazie al lavoro che è stato fatto negli ultimi anni sulle aree interne per rendere territori di opportunità, un’alternativa percorribile.
I piccoli paesi sono ancora molto vuoti, ma il vuoto è fatto per essere riempito e regala la possibilità a chi torna e resta di innovare e creare un loro mondo, un futuro professionale e personale. Le aree interne sono, per ora, una carta bianca su cui si può scrivere liberamente (e consapevolmente) e creare il proprio futuro!
Nel post-pandemia, i riflettori generali sono tornati ad accendersi sulle aree interne italiane, e si è tornato a parlare di questi territori. Spesso, però, la narrazione che vi è stata costruita sopra e attorno è risultata stereotipata, fuorviante, funzionale a interessi “esterni” di sviluppo più che alle necessità delle comunità locali. Secondo voi, come dovrebbe muoversi una narrazione davvero efficiente per le aree interne?
(FABIANA) Ecco la domanda che ci poniamo ogni giorno! Forse non abbiamo ancora individuato la “ricetta magica della narrazione perfetta” per le aree interne, ma sappiamo distinguere con chiarezza ciò che non funziona nel modo in cui la montagna è raccontata oggi. Da un lato c’è quell’immagine di idilliaca arretratezza fatta di borghi in pietra, pascoli e vette silenziose in cui raramente compaiono anche gli abitanti dei territori, quasi come ci si muovesse in uno spazio vuoto in cui rigenerarsi dagli stress della vita moderna.
A ben pensarci è un’idea neocoloniale della montagna, vista come un insieme di risorse naturali e paesaggistiche di cui appropriarsi all’occorrenza, una destinazione del benessere senza una propria caratterizzazione.
Dall’altro lato c’è il rischio di ricadere in una visione militante che romanticizza la vita di montagna e la oppone nettamente al modello urbano per esaltarne soltanto i pregi, tipicamente “l’aria pura” e “il senso di comunità”. Raccontare la montagna oggi significa accettare la sfida di muoversi nella complessità di territori rugosi, che tra le loro pieghe nascondono incredibili risorse naturali ma anche criticità non irrilevanti. Per noi significa ricercare e narrare le esperienze di innovazione sociale ed economica che vi stanno fiorendo, mantenendo però uno sguardo attento e capace di cogliere le problematicità che le aree interne affrontano, spesso strutturali figlie di decenni di politiche sbagliate. E al tempo stesso limare il contrasto urbano-montano per cogliere le interconnessioni tra le aree interne e le città, rifacendoci al concetto di “metromontagna” che abbracciamo pienamente.
Ultimamente, una delle parole-mantra per promuovere lo sviluppo delle aree interne è “turismo”: siete d’accordo? Quale turismo, e in che modo il turismo può farsi traino per la restanza? Quando invece rischia di diventare un problema anziché una risorsa?
(FABIANA) Per risponderti parto proprio dall’ultima parola che hai usato: risorsa. Il turismo dev’essere una risorsa per il territorio, uno strumento finalizzato a un benessere ampio e diffuso per l’intera comunità. Se il turismo diventa esso stesso un fine, sorgono i problemi. Se si intende promuovere il turismo ad ogni costo c’è la quasi totale certezza che si andranno ad erodere le risorse ambientali dei territori in nome dell’espansione turistica, e ci sono fin troppi esempi dei danni che la monocultura del turismo invernale ha arrecato agli ecosistemi alpini e appenninici.
Il grande tema è: come far sì che le ricadute positive del turismo impattino l’intera comunità, anziché restare nelle mani di pochi? Significa che gli abitanti del territorio non devono essere né spettatori passivi dei flussi di visitatori né folkloristiche attrazioni per turisti alla ricerca di esperienze autentiche ma devono diventare parte attiva dell’accoglienza delle persone.
Come RIFAI sogniamo un turismo fatto dalle comunità, in cui interi paesi diventano casa temporanea di chi li visita con lentezza per scoprirne le unicità. Un’esperienza molto interessante che abbiamo proposto nel 2023 è il Grand Tour (https://www.reterifai.it/2023/10/sentiero-capace-futuro-grand-tour-rifai/ ), una settimana di cammino tra le valli del Piemonte alla ricerca delle esperienze di innovazione sociale e imprenditoria di comunità che ha unito sport, natura e una conoscenza vera dei territori e degli abitanti che li presidiano e ne hanno cura. Nella nostra Rete riuniamo tante realtà che fanno questo quotidianamente e promuovono una nuova idea di turismo. Sono realtà piccole, ma messe insieme possono fare rumore.
Se vi chiedessi di raccontarmi alcune esperienze virtuose o particolarmente significative incontrate finora, quali scegliereste?
(GIULIO) Le esperienze virtuose presenti nelle aree interne sono tante, “milioni di milioni” riprendendo lo slogan di un famoso spot pubblicitario, ma spesso poco conosciute al grande pubblico perché non fanno notizia al di fuori del settore. Per comodità ne descrivo brevemente tre, diverse tra loro sia per ambito, sia per ubicazione territoriale, rispettivamente al Nord, Centro e Sud.
In Valle Stura (CN), qualche anno fa, attraverso un progetto PSR finanziato dalla Regione Piemonte nasceva Montagnam, un marchio territoriale di prodotti alimentari regolamentato da un disciplinare e creato da sei piccole aziende che hanno deciso di unire le proprie forze per raggiungere un obiettivo comune: mettere in rete le loro piccole produzioni e dar vita a una filiera corta di montagna con un negozio intermediario in valle che ne favorisse la distribuzione congiunta sul territorio.
Grazie a questa iniziativa, piccole aziende con la stessa etica e filosofia che prima lavoravano singolarmente, ora lo fanno in rete tramite un marchio che non cancella le peculiarità delle singole produzioni, ma al contrario ne amplifica il valore, restituendo loro un’identità che altrimenti rischiava di perdersi nella frammentazione.
In Umbria, invece, durante il periodo del Covid, prende forma “Storie dei borghi”, un progetto di narrazione territoriale e di ricerca sociale accompagnato da un omonimo canale YouTube che racconta le aree interne a forte rischio di abbandono ed isolamento attraverso le storie delle persone che li abitano, ci vivono e lavorano. Il progetto nasce per volontà di un gruppo di designer specializzati in diverse discipline creative che scelgono consapevolmente di indagare i luoghi nascosti, sconosciuti e a forte rischio abbandono in Italia, il tutto con a mente la visione di attrarre giovani progettisti creativi e consapevoli in luoghi diversi dalle grandi metropoli, stimolando la creazione di community e progetti in luoghi che apparentemente sembrano silenti e che in realtà nascondono un dinamismo ed un potenziale unico. Finora, i comuni coperti sono quelli di Montecchio in Umbria e della Valle del Savio in Romagna.
Ad oggi, “Storie dei Borghi” è diventato il progetto pilota di una visione più grande che si chiama UNICORNIA, un ETS che raggruppa una community di creativi legati a varie discipline e ricercatori (antropologi, sociologi, esperti di comunicazione, accessibilità e lingua dei segni) che si vuole occupare di Ricerca, Design e Comunicazione nelle aree interne con popolazione inferiore a 5000 abitanti e che sente vivi i due bisogni sociali elencati in principio.
Infine, in Sicilia, vi è il caso del Comune di Ferla, un paese poco più di duemila abitanti che ha accolto con grande entusiasmo la sfida di costituirsi come comunità energetica promuovendo “una società più vivibile e sostenibile” e che è attualmente in grado di autoprodurre e distribuire energia elettrica, ma non solo. Attraverso il Progetto “CommOn light” con l’installazione del primo impianto fotovoltaico sul palazzo comunale e un’amministrazione decisamente intraprendente, insieme ad alcuni ricercatori dell’Università di Catania impegnati nel progetto Trepesl, ha costituito la prima CER (Comunità Energetica Rinnovabile) siciliana. Associazione di privati, enti pubblici e aziende, rete di co-produttori e consumatori, ha scommesso sulla via ‘verde’ all’energia elettrica, rendendosi parte attiva della transizione energetica in Sicilia e riducendo, allo stesso tempo, i costi in bolletta. Oggi, Ferla è giunta a ben sei impianti fotovoltaici sulle strutture comunali con una potenza totale di 311 kW.
Comune ‘riciclone’ e Comune ‘rinnovabile’ per i brillanti risultati raggiunti nella differenziazione dei rifiuti per il 75% da Legambiente, Ferla non è solo una comunità energetica ma, al contempo, un laboratorio civico e di economia circolare partito dapprima attraverso la realizzazione delle prime due ‘case del compost’ del Sud Italia e, in seguito, delle ‘case dell’acqua’ per la riduzione dell’uso di acqua in bottiglia.
Insomma, un caso che, se guardato anche dalle altre amministrazioni, potrebbe essere un esempio virtuoso in grado di trasformare l’isola più a Sud dell’Italia (e non solo) in veste green.
Cosa consigliereste a chi volesse trasferirsi oggi in un territorio marginale italiano?
(MARIA) Osare. Non c’è molto altro da aggiungere. Abbiamo parlato molto di opportunità, limiti e risorse delle aree interne, la verità è che non ci sarà mai una ricetta perfetta. Per trasferirsi in un territorio marginale ci vuole un po’ di coraggio, perché è un contesto di vita diverso da quello a cui siamo abituati di solito, consapevolezza dei limiti che si troveranno e l’apertura al cambiamento. Sono territori che hanno molto da offrire a livello umano e professionale se affrontati con lo spirito giusto, con la giusta apertura. Certo, la vita è fatta di aspetti pragmatici e non vanno ignorati, ma risolti quelli bisogna gettare il cuore oltre l’ostacolo e siamo sicuri che la vita dei piccoli paesi saprà sorprendervi.
Maria, Giulio, Fabiana, Silvia (Rete RIFAI)