«Lavorare e camminare insieme non è questione di performance: è semmai una questione di equilibrio tra vita e lavoro, per unire il desiderio di vivere lentamente i territori meno conosciuti e la necessità di avere un’entrata economica. Ecco, Smart Walking nasce proprio da questo bisogno di equilibrio, di via alternativa a strade già tracciate, di incontro e condivisione». A parlare è Davide Fiz, sales manager e guida escursionistica che ha fatto del cammino e del nomadismo digitale un’opportunità di vita e che proprio su questa scia ha ideato Smart Walking for Smart Working, un format e progetto personale che intreccia cammino e lavoro, promuovendo al contempo percorsi e tracciati nelle aree interne italiane e le realtà che li tengono vivi. In questa intervista, abbiamo parlato del suo progetto e dell’impatto (reale e potenziale) del lavoro a distanza per i territori e per i lavoratori stessi, per capire in che modo il mondo dei nomadi digitali e dello smart working può incontrarsi con quello delle aree interne.
Davide, ti va di raccontarci un po’ il tuo background? Come hai cominciato a lavorare camminando?
Per quanto riguarda il mio background, mi considero quasi una sorta di apolide: sono nato a Genova, cresciuto a Livorno e ho abitato per un po’ anche a Palermo. Quindi sono italiano in senso molto ampio: italiano di tutto il paese, da nord a sud. Inoltre, sono sempre stato molto affascinato dalle aree interne, forse perché per anni ho vissuto la classica dimensione della villeggiatura. Ogni anno, infatti, per due mesi trascorrevo con la famiglia le mie estati a Palo, un paesino sperduto sull’Appennino Ligure non lontano da Sassello: era il classico paese che si ripopolava durante la bella stagione grazie alle seconde case, ma in cui lo scemare della moda della villeggiatura ha coinciso con un progressivo svuotamento e abbandono… Insomma, una storia già vista e già sentita un po’ in tutti i territori interni della nostra penisola. Comunque quei mesi di vacanza mi hanno regalato la possibilità di fare infinite escursioni nell’Appennino Ligure, percorrendo spesso quei sentieri di crinale che rappresentano un po’ il punto di incontro e cesura tra le aree interne e il mare: verso sud, le industrie, le città, le grandi infrastrutture. Verso nord, invece, paesi sperduti, zone selvatiche, montagne. Ecco, credo che sia da lì che è andato radicandosi il mio interesse per le aree interne. L’interesse per il trekking, invece, c’è sempre stato… Compresi quelli a lunga percorrenza.
Infatti è stato grazie ai cammini – prima a Santiago, percorrendo nel 2015 il Cammino Portoghese e nel 2016 il Cammino Francese, e poi in Italia, dove nel 2018 ho percorso il Cammino dei Briganti – che ho iniziato a interrogarmi se fosse possibile trovare un equilibrio: per lavorare, ovviamente, perché non si campa di aria, ma anche per conoscere e toccare con mano territori poco battuti, e farlo nella propria quotidianità, non soltanto durante i periodi di ferie.
La svolta vera e propria – cioè l’idea di strutturare un progetto dedicato proprio a questa intuizione – è arrivata a cavallo del periodo del Covid: avevo iniziato a lavorare a distanza (sono un sales manager, il mio ruolo me lo permetteva) dapprima da Palermo e poi da Livorno, ma dopo la fine di una relazione mi sono trovato a dover stare tutto il giorno chiuso in una casa che conservava ricordi dolorosi. Così ho sentito l’esigenza di premere un attimo il pulsante “stop” e sono partito per un altro cammino, il Cammino Primitivo. In un certo senso Smart Walking è nato lì, perché quando sono tornato indietro avevo conservato nei piedi e nel cuore il gusto della lentezza, degli incontri, del tempo come dono e non come sfida: “come farlo durare?”, mi chiedevo. Possibile che la scelta dovesse sempre essere tra momenti di lavoro e trekking nel tempo libero? Poi, capitò che un’amica mi invitò a un altro cammino in Umbria: pur avendo del lavoro da fare, pur non potendo prendermi ferie, ho deciso di partire lo stesso, con il computer nello zaino. E ce l’ho fatta: camminavo al mattino e lavoravo al pomeriggio. Lì ho capito che poteva esserci un’altra strada.
E qui arriviamo al nocciolo di questa intervista, al progetto che è di fatto diventato la tua vita. Che cos’è Smart Walking?
Mi piace definire Smart Walking un modo di vivere la vita, oltre che un progetto personale. È nato da un’esigenza, ma si è sviluppato come un’inaspettata possibilità di incontro e di equilibrio.
Di fatto ho costruito il format di Smart Walking nel giro di pochi mesi, partendo dall’idea di dare di anno in anno un filo conduttore ai miei cammini: nella prima edizione del 2022, avevo scelto “20 cammini, 20 regioni”, prefissandomi l’obiettivo di percorrere in quell’anno un cammino per ciascuna regione italiana. Ovviamente, la formula era sempre la stessa: al mattino camminavo, al pomeriggio mi prendevo qualche ora per lavorare, proprio lì, nei luoghi dov’ero arrivato e dove avrei trascorso la notte. L’anno scorso il fil rouge è stato “Smart Walking coast to coast: cammini che attraversano, cammini che uniscono”, mentre quest’anno ho voluto collegarmi al tema del turismo delle radici, chiamando l’edizione 2024 “Smart Walking back to the roots” e intendendo anche il camminare come un atto di ritorno alle origini, sia fisiche che spirituali.
Con questo progetto esci di fatto dalla dicotomia per cui c’è un tempo dedicato al lavoro e un tempo dedicato alle vacanze…
Il senso di questo progetto è proprio la volontà di integrare la dimensione lavorativa con quella personale e nutriente, anziché separarle nettamente nei due momenti distinti delle “ferie” e del “lavoro”: l’obiettivo non è quello di sfidarmi o di dimostrare alcunché a nessuno, ma di trovare un equilibrio personale adatto a me e al contempo dare visibilità a territori minori, piccoli, a misura d’uomo. E di mostrare che è possibile, che si può fare: non con formule prestabilite, ma ciascuno con i propri ritmi e le proprie esigenze.
Organizzare un cammino, intrecciarlo con l’attività lavorativa, incontrare e conoscere i territori e i loro referenti: come sei riuscito a bilanciare tra loro tutti questi aspetti?
Diciamo che il primo anno è stato un po’ un test per vedere come sarebbe andata. Fondamentale è stato aver chiaro fin da subito ciò di cui avevo bisogno: non soltanto camminare e non soltanto natura, ma anche luoghi dove potessi avere modo di dedicarmi al mio lavoro una volta arrivato. Quindi non ho mai scelto cammini o percorsi fuori dal mondo, e anche per l’alloggio tendo a optare per strutture ricettive che possano mettermi a disposizione il wi-fi e un tavolino. Inoltre per me era fondamentale il contatto umano e il fatto che le tappe non fossero troppo lunghe. Una volta definiti questi aspetti – che ripeto, erano e sono importanti per me, per ciò di cui ho bisogno io – è stato facile incastrare il tutto.
Ho avuto tanto aiuto dai territori, questo è certo. Prima di partire ho contattato i comitati locali dei percorsi per chiedere un supporto, e la risposta è sempre stata veloce, immediata, calorosa. I territori hanno subito creduto in questo mio progetto, tant’è che alcuni di essi mi hanno invitato proprio per inaugurare nuovi cammini.
Insomma, da solo avrei fatto poco: ma dallo scambio, dalle relazioni, dall’incontro è nato il senso più autentico di questo progetto. Un progetto che è mio ma è anche di tutti i luoghi che percorro.
Di cammini negli ultimi anni si parla spesso, così come di smart working e nomadi digitali. Difficilmente, però, se ne parla insieme, perché i primi afferiscono al tema del turismo e i secondi a quello del lavoro. Secondo te, il mondo dei nomadi digitali può intrecciarsi con quello delle aree interne? In che modo la dimensione dello “smart walking” può essere un incentivo e un sostegno per territori marginali, o comunque ancora poco battuti?
Per loro natura, i cammini portano sui territori un tipo di turismo lento e poco invasivo, rispettoso e predisposto a interagire con il paese e i suoi abitanti, anziché a “predarlo” come altre tipologie di viaggio. Ciò detto, il mondo dei nomadi digitali – seppure in cammino, come il sottoscritto – è molto diverso da quello di chi si muove zaino in spalla solo per svago, e questo può offrire interessanti riflessioni per i territori stessi.
Chi ha la possibilità di fare il nomade digitale, oggi, tende a non essere solo di passaggio nei luoghi ma a volersi fermare anche solo qualche giorno, per capirli, conoscerli e assaporarli. Insomma diventa un po’ un abitante temporaneo di quei luoghi, e questo è un valore altissimo: sia per chi ci abita, sia per chi ci arriva. Crea incontro, supera le barriere della diffidenza, ci si riscopre persone e non numeri.
Quindi sì, credo che il nomadismo digitale possa intrecciarsi eccome con le aree interne, anzi, penso che possa essere un volano interessantissimo. Allo stesso modo, le aree interne offrono a chi vi passa e vi si ferma a lavorare qualche tempo la possibilità di toccare con mano un modo di vivere più umano, più autentico. Alla fine, se ne esce tutti arricchiti.
Anche perché – se è vero che le aree interne non hanno ad oggi la forza per tenere testa ai modelli globali e centralizzati che definiscono le dinamiche economiche attuali – al tempo stesso nel 2024 ormai si può fare davvero quasi tutto online: con un minimo sindacale di servizi come scuola e sanità, sarebbero luoghi non solo perfettamente abitabili, ma anche molto più godibili per tutti rispetto alle città. È un cane che si morde la coda. E chi cammina e chi lavora a distanza può fare da perno in questo circolo vizioso, e provare a interromperlo insieme ai territori.
[Le foto a corredo di questo articolo sono prese dal sito www.smartwalking.eu su concessione di Davide Fiz]