Dalla pastorizia vagante all’allevamento stanziale, dalla vita transumante a quella dei casari: è la storia di Sofia Chiudinelli Fiorini e Mattia Cacciatori, 37 e 36 anni, giovani e visionari montanari per scelta che con la loro azienda agricola La Pecora del Bosco hanno toccato con mano le bellezze e le difficoltà della vita da pastori nomadi nelle montagne della Lessinia, e che ora hanno deciso di cambiare (un poco) rotta, di fermarsi e di dedicarsi alla produzione casearia. Con un obiettivo su tutti: prendersi cura del proprio territorio.
Dal mondo alle montagne di casa
«Quella di tornare stanziali è stata una scelta un po’ sofferta, all’inizio» ammette Sofia «La pastorizia vagante dava soddisfazione ai nostri animi un po’ nomadi, a quella inclinazione per il viaggio e lo spostamento che ha sempre caratterizzato il nostro percorso di vita e lavoro, anche molto prima di tornare in montagna». In effetti, la storia di Sofia e Mattia non è una di quelle che parlano di “montanari e allevatori di famiglia”: è una storia di scelte e di perseveranza, guidate dalla volontà di prendersi cura di un territorio che si chiama “casa”. Prima di arrivare al mondo della pastorizia, però, le loro strade erano molto diverse: Mattia era fotografo e aveva trascorso lunghi anni all’estero, tra Africa, Medio Oriente e Asia, dove aveva toccato con mano come la dimensione pastorale fosse lì particolarmente radicata nel tessuto economico. «Forse è stato lì che è nato un seme di interesse per questo mondo» spiega «Dopo otto anni in giro per il mondo, ho deciso di tornare in Italia e ho iniziato a lavorare nell’azienda agricola di un amico: un’occasione, quella, che mi ha fatto letteralmente innamorare dell’allevamento e degli animali: solo nel 2016, tuttavia, ho fatto il passo e acquistato le prime pecore, cominciando a costruire il mio gregge nel mio territorio natale, quello della Lessinia».
Sofia, invece, di origine è camuna, ma per anni è stata anch’essa cittadina del mondo: «Sono rientrata stabilmente in Italia nel 2017, quando ho capito finalmente che ciò che mi mancava – e che era forse anche il motivo della mia irrequietezza – era la possibilità di prendermi cura di un luogo, di tornare alle mie radici» racconta la ragazza «Per tre anni ho gestito con un’amica un ristorantino in Valle Camonica, poi la vita ci ha portate su strade diverse e io sono partita per un’esperienza con Wwoof in un’azienda agricola della Lessinia… Quella dove lavorava Mattia in quel periodo. È stato così che ci siamo conosciuti, ed è stato così che anche io mi sono pian piano innamorata del mondo della pastorizia. Devo dire che i tre mesi di lockdown trascorsi lì sono stati utili». È nata così la loro azienda, La Pecora del Bosco: un gregge di oltre trecento capi allevati in pastorizia nomade, cioè che si spostava di giorno in giorno “a caccia di erba” per nutrire gli animali, e un’attività di vendita diretta ai ristoranti del territorio di carne di pecora di prima scelta.
Una vita in movimento, quella scelta nei primi anni di lavoro da questa coppia appassionata e tenace che è, in ogni parola, uno splendido mix di sogni e concretezza: «L’essere umano è pastore da migliaia di anni e questa vita transumante getta ancora la sua suggestione atavica su chiunque» spiega Mattia «E perché senza il pastore il gregge non esiste. Il gregge è sangue e latte e carne, ed è pastore, pecore e cani».
Carenza di erba
Niente di facile, ovviamente. Il loro lavoro si nutre di passione per il territorio e gli animali, ma incontra anche tante difficoltà: come trovare l’erba, in un Paese che consuma sempre più suolo rubandolo agli animali? Come gestire le greggi con una burocrazia assurda che sfianca? Come affrontare la siccità estiva e la magra invernale, se i pascoli che potrebbero usare vengono abbandonati o ceduti “per finta” ad altri allevatori più grandi di loro? Come gestire gli incontri-scontri tra cani da guardiania (fondamentali nel loro lavoro) e gli escursionisti sui sentieri, spesso ignari delle dinamiche pastorali?
«È stato anche per queste questioni» spiega Sofia «che un paio di anni fa abbiamo deciso di reinventarci. Ci siamo scontrati con la monocultura delle vigne, particolarmente forte qui in Veneto, e con la crescente fatica di trovare pascoli invernali per i nostri animali… E sono anche subentrate altre priorità: siamo diventati genitori, è nata la piccola Nina, e la pastorizia transumante non era per noi più compatibile con le nostre nuove esigenze di famiglia. Però la passione per le pecore non è mica sparita, quindi ci siamo chiesti: che fare? La risposta è venuta da sé: Mattia aveva già fatto un po’ di esperienza di caseificazione, e abbiamo deciso di provare a fare formaggi. Così è iniziata la seconda grande avventura della Pecora del Bosco».
Una nuova avventura
Che cambiare produzione significasse cambiare così tanto nella loro attività, Mattia e Sofia lo scoprono sulla propria pelle, scontrandosi con le nuove sfide che il cambio di rotta porta con sé, e che non riguardano soltanto il processo stesso della caseificazione.
«Noi prima allevavamo pecore Brogne, tipiche della Lessinia, e un mix di altre razze, come le bergamasche: erano tutti animali da carne, molto rustici ma poco adatti alla produzione di latte. Cambiare tipologia di produzione ha significato quindi in primo luogo cambiare razza di pecore, trovarne di più lattifere ma ugualmente robuste, perché sebbene volessimo accantonare il pascolo vagante, di certo non volevamo smettere del tutto di farle pascolare all’aperto, anzi!» racconta ancora Sofia «Abbiamo studiato e abbiamo anche fatto tanti errori. All’inizio ci siamo lasciati sedurre dall’alta produttività di alcune razze, come le Lacaune francesi, salvo poi scoprire che sono pecore da stalla, poco o per nulla adatte a sopravvivere agli ambienti montani come i nostri. Allora abbiamo integrato con pecore sarde e del Belice: hanno una produttività inferiore alle Lacaune ma sono resistenti, solide».
Non solo, continua la ragazza: abituati com’erano a “guardare le pecore” in relazione alla produzione di carne, all’inizio non riuscivano a giudicare se le nuove pecore stessero bene e se il gregge fosse sano. «Ci siamo fatti affiancare da una veterinaria» spiega Mattia «perché non avevamo strumenti per interpretare questo mondo nuovo. Cambiare tipologia di produzione significa ambiare tutto, è come passare dalle pecore ai cammelli, e dovevamo in un certo senso fare tutto da capo. Non sempre è stato facile: non ti dico le prime due settimane, quando dovevamo abituare i nuovi animali a essere munti! È stato difficilissimo, ma poi si impara insieme, allevatori e gregge».
E ancora: mungere tutti i giorni significava avere necessità non solo di un laboratorio di lavorazione del latte, ma anche di una stalla che fosse circondata da spazio sufficiente di pascolo per la stagione invernale… Una questione, questa, che quando si occupavano di pastorizia vagante non avevano avuto bisogno di affrontare. Un altro aspetto da modificare è stato poi quello relativo alle modalità di pascolo e di gestione dei parti, assicurando una stagione di mungitura – circa otto mesi – e una stagione invernale di asciutta che fossero coordinate con le esigenze di caseificazione, e che fossero anche un piccolo “compromesso”. «Scegliere di mungere in una sola stagione ci permette di fare nei mesi invernali ancora un po’ di pascolo vagante, sebbene più in piccolo rispetto al passato» racconta Sofia «E di restare collegati a quella che è la nostra filosofia di base, cioè allevare sul territorio, vivendo il territorio nella sua complessità. Fare pascolo è espressione di questa filosofia, perché significa prendersi cura di un luogo e di una collettività, il gregge appunto. Per noi è importante, e in inverno possiamo farlo qui attorno perché abbiamo meno lavoro in laboratorio. Insomma abbiamo trovato questo equilibrio tra aspetti diversi di questo stupendo lavoro».
Nel formaggio, la ricchezza del pascolo
Oggi, Mattia e Sofia hanno una sessantina di pecore da latte, una decina di capre e quattro asini, e hanno da qualche tempo integrato con le galline. Dopo un periodo di apprendistato con un collega e amico che produce formaggi di capra e che ha mostrato loro le basi della caseificazione e grazie al continuo confronto con i colleghi casari di altre regioni, hanno iniziato a farsi le ossa con il latte di pecora: oggi producono ricotta fresca, ricotta salata, yogurt e caciotte ovine fresche e stagionate a latte crudo, cioè non pastorizzato, «per permettere al formaggio di trasmettere tutto il lavoro che ci sta dietro, cioè la ricchezza del pascolo, che conferisce al latte e ai prodotti caseari un gusto unico».
Quanto alla clientela, «ci ha aiutato il fatto di aver creato in passato un buon giro di clienti con la carne di pecora» spiegano «Clienti che hanno continuato a darci fiducia e hanno assaggiato e apprezzato anche i nostri prodotti del caseificio. Poi vendiamo tramite i mercati contadini del territorio, sempre nell’ottica di restare vicino a casa e di non macinare chilometri su chilometri ogni giorno».
Un nuovo modo di vivere la montagna
Ma è soprattutto quando si parla del proprio rapporto con la montagna che Mattia e Sofia notano come il mutare dell’attività li abbia portati a guardare al territorio in modo diverso: «Quando facevamo pascolo vagante, non ci fermavamo mai in un medesimo luogo, perché i luoghi li attraversavamo e basta: eravamo più legati alla montagna come ambiente naturale, e forse più vicini al mondo delle bestie – con tutte le loro esigenze – che a quello degli umani» spiega Mattia «Adesso invece viviamo questo luogo in forma più stanziale, e così facendo ce ne prendiamo cura in modo nuovo, siamo più connessi con tutto ciò che abbiamo intorno. Questo è un valore aggiunto: più stai su un territorio, più lo conosci nelle sfumature, ed esso ti insegna. Impari a condividere la quotidianità con le persone, e impari anche che la montagna e le persone che la abitano hanno i propri tempi, che vanno compresi e rispettati».
Per non dimenticare poi la dimensione genitoriale: «Molte persone che vengono da noi a prendere il formaggio commentano quanto sia bello che Nina viva qui “fuori dal mondo”» racconta Sofia «Noi siamo felici che nostra figlia cresca nella natura, ma ha anche bisogno di socialità, di altri bambini: l’anno prossimo inizierà l’asilo part-time, così che possa avere un equilibrio tra due ambienti diversi. Ecco, per noi è questa la chiave: trovare un equilibrio. Di vita, di lavoro, di famiglia, con gli animali e con il territorio e la montagna dove abbiamo scelto di vivere e di rimanere».
Le foto a corredo di questo articolo sono scattate da Chiara Calisto, Luciano Perbellini e Maria Laura Fineschi. L’articolo è stato inizialmente pubblicato su L’altramontagna