«Da sempre l’ardesia è utilizzata sui tetti delle case e delle baite, oppure per realizzare gradini e pavimenti. Era l’unica pietra usata sul territorio, la più facile da reperire, la più comoda». Monica racconta mentre ci prepara una moka intera di caffè. Nel camino scoppietta un fuoco vivace: sebbene sia ancora estate, quassù l’aria è già fresca, spira dal Monte Saccarello con una vena gelida che sa già di stagione invernale.
Monica Garzo e Alberto Marino, suo marito, ci hanno aperto le porte della loro casa di Realdo con lo stesso calore che dimostrerebbero se fossimo figli di sangue: ma siamo amici, e questo basta. Quassù le visite sono sempre gradite, ci spiegano, visto che c’è così poca gente: Realdo, nel cuore dell’alta Valle Argentina ligure e della Terra Brigasca di radici occitane, conta oggi meno di una decina di abitanti e le sue stradine attorcigliate sono un continuo richiamo a un passato che sbiadisce. Siamo a poco più di 1000 metri di altitudine sul livello del mare, in una terra che è sempre stata di pastori e montanari, di soldati e di commerci: oggi pare terra di eremiti, nostalgici e romantici avventurieri. Oppure di persone che, semplicemente, cercano requie dalla ressa della Liguria costiera: «Ci stiamo così bene, qui», continua Monica. «C’è tanta pace, la natura è pazzesca, e possiamo lavorare senza disturbare nessuno». Monica e Alberto, infatti, sono intagliatori di ardesia: legati per famiglia e per amore al minuscolo borgo montano, hanno deciso di farne definitivamente casa propria solo da qualche anno, scegliendo al contempo di recuperare e riscrivere la tradizione dell’ardesia tipica di queste vallate e donandole un tocco artistico, artigianale e moderno.
Dalle “ciappe” alle cave industriali
Che l’ardesia sia materiale comune da queste parti, lo si intuisce facilmente guardandosi attorno. Non soltanto le “ciappe” (cioè le lastre) compongono i tetti e i gradoni dei carrugi, ma anche le targhe delle case e le insegne delle vecchie botteghe sono realizzate in pietra nera. Decorazioni in ardesia si trovano un po’ in tutta l’area, dalla vicina Triora a La Brigue in Francia, dove i portali delle abitazioni sono decorati da vere e proprie opere d’arte scolpite.
Comunque l’ardesia restava principalmente un materiale edile più che artistico. L’estrazione della pietra nera acquisì nell’alta Valle Argentina particolare importanza soprattutto a partire dagli anni Settanta, quando venne aperta una dozzina di cave industriali che procurava materiale da spedire oltreoceano, per la realizzazione dei tavoli da biliardo made in USA.
«Meno famosa dell’ardesia dei paesi genovesi di Lavagna e Civagna, la nostra ardesia era molto pregiata e apprezzata all’estero», spiega Monica. «Le cave sono state molto importanti per la valle, perché hanno dato lavoro a tanta gente. Sono state chiuse negli anni Novanta, quando si è fatto più conveniente utilizzare l’ardesia proveniente dalla Cina o dal Brasile, estratta in cave a cielo aperto e quindi più facile ed economica».
Farne un’arte
La chiusura delle cave non ha però causato la magica scomparsa dell’ardesia, che c’era prima e continuerà ad esserci anche dopo il passaggio umano. Ed ecco allora che sul territorio diverse persone hanno provato a pensare un uso diverso per questo materiale semplice e nobile, raffinato eppure popolare. Monica e Alberto hanno ripreso l’attività del padre di Monica, che si dilettava con la scultura della pietra già da qualche tempo, e hanno iniziato a produrre oggetti di design e arredamento, come orologi, lampade oppure targhe decorate, e a venderli nei mercati per hobbisti in tutto il nord Italia.
Anche Gianfranco Lanteri è uno scultore di ardesia. Lui abita e lavora a Verdeggia, l’altro borgo brigasco sul territorio ligure, a pochi chilometri di distanza da Realdo. A differenza di Monica e Alberto, nei suoi lavori Gianfranco punta più sulla tradizione locale che sul design e predilige stemmi e simboli dell’area brigasca, come la croce occitana o la stella delle Alpi, «che è un segno di prosperità», spiega. «Infatti pastori e malgari la disegnavano sui collari dei campanacci di mucche e pecore, con intento beneaugurante».