Il fiume Oglio è azzurro, spumeggiante, viene giù da Ponte di Legno di color carta da zucchero e si frange sui sassi con un fragore che promette frescura. La sagoma frastagliata della Concarena troneggia severa sulla Valle Camonica, quasi ascetica nelle sue pieghe di roccia stagliate contro il cielo: “montagna di luce”, la chiamano qui, perché in certi momenti dell’anno il sole al tramonto si incunea in una fessura e crea un particolare gioco di luce con la pietra. Sull’altro lato della vallata è invece il Pizzo Badile a comprimere gli abitati: Nadro, frazione del comune di Ceto, se ne sta lì aggrappato al pendio, le case in pietra raggruppate attorno al vecchio centro storico.
È uno di quei posti vibranti di energie antichissime, difficili da definire se non fosse per il motivo per cui la Valle Camonica è famosa: le incisioni rupestri, realizzate nell’arco di oltre ottomila anni dai popoli preistorici che qui passarono e abitarono. Una delle più ampie concentrazioni di petroglifi preistorici del mondo. «La prossima volta che passate di qua», ci dice Abbi, aprendo il cancellino che dal suo cortile conduce dritti sull’argine del fiume, mangiato dalle piene, «vi accompagno io a vederle. C’è tutta una storia umana, incisa lì su quelle pietre».
Abbi Molinari è il vero motivo per cui ci siamo messi in auto e siamo saliti in Valle Camonica. Non (solo) la Riserva naturale delle incisioni rupestri di Ceto, Cimbergo e Paspardo, non (solo) l’ampiezza fresca e suggestiva di questa vallata glaciale, con la sua corona di monti tra l’Adamello e le Prealpi orobiche. No, il motivo è questa piccola e vivace donnina coi capelli bianchi, lunghi, da elfa dei boschi, e la sua infinita conoscenza delle erbe selvatiche, del loro uso alimentare e – soprattutto – delle loro proprietà curative e fitoterapiche. Abbi delle Erbe, la chiamano qui: raccoglitrice, erbaria, custode di saperi che altrimenti stanno andando perduti. E prima di tutto donna di grande saggezza verde.
“Le erbe mi hanno chiamata per caso”
Quella di Abbi non è la classica storia di donna di paese che impara le erbe dalla nonna o da qualche vecchia zia. È semmai la storia di una chiamata che è arrivata un po’ per caso, toccando corde profonde che poi lei ha deciso di seguire.
Originaria della Valle Camonica, Abbi ha abitato per un po’ con la famiglia in Romagna. Ed è stato lì, nelle colline che abbracciano la riviera romagnola alle spalle, che ha iniziato a conoscere le erbe selvatiche: «quella della raccolta delle erbe spontanee è un’usanza ancora molto diffusa in quella zona. Lì è abitudine che le donne vadano per campi a cercare erbe commestibili da poter usare poi in cucina», spiega Abbi. Grazie a una anziana conoscente, ha iniziato ad appassionarsi a questo mondo, ha cominciato ad approfondire questo mondo variegato, profondissimo e antico.
Poi, vicissitudini familiari e personali l’hanno riportata nella sua terra natia con le figlie, nella Valle Camonica bresciana scavata dal ghiaccio e incisa da antichissimi abitanti, e questa piccola donna battagliera ha portato con sé il suo nuovo bagaglio di conoscenze, conoscenze che stavano maturando pian piano mentre lei, per vivere, faceva altri lavori. Ma le erbe nel frattempo hanno continuato a chiamarla e affascinarla.
«In ogni società contadina e rurale si è praticata la raccolta delle erbe selvatiche, sia per la cucina, sia per finalità di cura», racconta Abbi. «Qui, però, è una conoscenza che sta andando davvero perduta. Capita spesso che, mentre sono fuori a raccogliere, persone di passaggio ridano, o mi apostrofino con battute sul “mangiare erba come le capre”».
Un sapere da recuperare
Conosce tutte le erbe che troviamo lungo il sentiero, Abbi. Ci ha accompagnati lungo il fiume Oglio, un cestino al braccio e le mani sempre allungate ad accarezzare una foglia, a staccare un fiore per porgercelo, perché per raccontare ciò che fa ha bisogno di mostrarcelo, di portarci con lei nel suo mondo verde.
Ci insegna a riconoscere il luppolo selvatico (commestibile) dalle altre liane che invece non si possono mangiare, ci fa assaggiare i fiori piccantini della senape, ci spiega come riconoscere le infiorescenze della carota selvatica e come mai le ombrellifere vanno sempre trattate senza leggerezza (perché a questa famiglia appartengono piante simpatiche come la cicuta, ad esempio). Ci racconta anche aneddoti del mondo rurale, come il fatto che il tasso barbasso venisse usato dai pastori come carta igienica (le foglie sono ampie e molto morbide…) o il fatto che l’iperico veniva considerato protettivo contro i demoni.
È una conoscenza empirica e concreta, quella di Abbi, affiancata dallo studio teorico ma mai disgiunta dal contatto diretto con le piante. Sa quali servono a curare, e cosa, quali sono velenose, quali sono infestanti e quali buone in cucina.
Per qualche tempo, le erbe sono state per Abbi solo una passione personale affiancata al lavoro “vero”. Poi, però, le cose sono cambiate. Oggi si occupa di erbe a tutto tondo: cura corsi e workshop di riconoscimento di erbe spontanee, le procura per ristoranti e cuochi, produce oleoliti e tisane, partecipa a mercatini e a pubblicazioni specifiche. Soprattutto, però, si occupa di raccogliere e conservare saperi che altrimenti andrebbero persi: «Mi sento in primo luogo una custode. Non un’erborista, non una donna saggia: solo un’umile raccoglitrice. Per non perdere tutto il sapere che le nostre nonne e le nostre antenate hanno sviluppato, e per restare connessi alle nostra radici. Radici che passano dal luogo in cui abitiamo, da ciò che lo compone, dalle piante che vi crescono».