Mentre ero a Madeira, mi sono trovata spesso a interrogarmi sul significato di autenticità dei luoghi. C’era qualcosa che mi strideva, quando sentivo il marketing turistico parlare di “scoprire un luogo autentico” per vendermi magari rumorosi tour in 4×4 nella laurissilva o affollate escursioni che diventano processioni ciabattanti di gente col cellulare in mano, in cerca solo della foto perfetta. O quando raccontava di un “paese autentico” mentre lungo la via si susseguono negozietti stracolmi di souvenir pacchiani ma è impossibile trovarci una panetteria o un market.
“Autentico”, per la narrazione prepotente sui luoghi da sfruttare ai fini turistici, è un’etichetta che insieme a “borgo” va con tutto, va sempre bene, la usi e vai sul sicuro, qualcuno che abbocca ci sarà sempre. Quindi cosa significa “autentico”? E’ ancora possibile trovare luoghi autentici? Cosa li rende tali?
Se ripenso ai luoghi visti nel corso del viaggio – e ai paesi e alle frazioni che incrocio quando girovago tra le mie montagne di casa, perché il discorso alla fine è lo stesso – mi rendo conto che di posti autentici ne ho visti eccome… Solo che non sono cartoline, non sono scorci da instagrammare, non sono solo “bei paesaggi”. Sono luoghi contraddittori, che non nascondono i proprio lati d’ombra a bella posta per chi passa di là. Sono luoghi in cui vedi la bella natura e l’aria pulita, certo, ma magari vedi anche la fatica del vivere senza servizi, intuisci la stanchezza del lavoro che manca, comprendi le stratificazioni economiche, sociali, politiche e culturali che ne determinano l’ossatura.
Autentico, per me, è esattamente questo. Un luogo che è quello che è. Nel bene e nel male. Se non riusciamo ad apprezzare questa ambivalenza – il bello e il brutto, e soprattutto la complessità intrinseca di qualsiasi luogo, anche il più sperduto – allora non cerchiamo autenticità: cerchiamo solo make-up turistico e pretendiamo un “effetto wow” che fa comodo a noi, ospiti e visitatori, ma che con il luogo non c’entra nulla.