La prima volta che sono salita alla diga del Gleno, per me era solo una bella gita: ero giovane e poco attenta, forse, alle storie sussurrate dai territori.
La seconda volta, invece, ci sono andata con una gravità diversa nel cuore: con la consapevolezza cioè che quel luogo rappresentava una cicatrice, uno sfregio dolorosissimo, l’imperituro monumento alla memoria della tragedia che aveva cambiato un’intera valle per sempre.
Il 1° dicembre 1923, infatti, in valle di Scalve crollò la diga del Gleno, lo sbarramento idraulico posto a monte dell’abitato di Vilminore di Scalve e considerato ai tempi un capolavoro di ingegneria contemporanea. Alle 7.15 del mattino, sei milioni di metri cubi d’acqua, di fango e detriti si riversano improvvisamente nella valle sottostante, travolgendo l’abitato di Bueggio e distruggendo buona parte del paese di Dezzo per incanalarsi poi nella strettoia della Via Mala, raggiungere la Valle Camonica e riversarsi infine nel lago d’Iseo.
La tragedia del Gleno spazzò via intere frazioni e i sonni ignari di quasi 500 persone.
Quest’anno (2022) ricorrono i 99 anni dalla tragedia del Gleno, e a volte vorrei scuotere la Erica giovane e ignara che in quella prima gita fu sorda al dolore covato in quel paesaggio bellissimo, bellissimo e doloroso. Ora, ogni volta che torno lassù, non posso evitare di chiudere gli occhi e pregare: pregare per quelle persone che vi persero la vita, per la valle intera, e perché la tragedia del Gleno altro non fu che ignavia e arroganza umana davanti alla natura.