Un orto rigoglioso, strabordante di verde e di colori. Tutt’attorno, i prati e i boschi di Pradella, località del comune di Schilpario, ora punteggiati di baite, ora tagliati da rigagnoli d’acqua.
Siamo a oltre 1000 metri di quota e il paesaggio comincia a essere alpino, abbracciato dall’orlo seghettato di montagne imponenti e percorso da una sottile brezza, fresca pure in piena estate. Schilpario è situato in cima alla Val di Scalve. Paese di montagna e villeggiatura, il comune bergamasco più lontano dal capoluogo di provincia se ne sta poggiato nella conca che chiude la vallata, protetto alle spalle da una fitta abetaia e ultimo abitato bergamasco prima del Passo del Vivione, che connette la Val di Scalve con la Val Paisco, tributaria della Valcamonica. Insomma piccolo luogo di confine, in un certo senso (ma non lo sono quasi tutti, in fondo, i luoghi di montagna?), ma anche luogo di sapori di una volta, di sapienze silenziose e di saperi che trovano radici proprio qui, nella terra che li ha visti nascere.
Lo capiamo pienamente solo dopo aver incontrato Mea Tagliaferri: chef, “cuoca dei fiori”, pilastro portante (insieme al fratello Enzo) del Ristorante Hotel San Marco in località Pradella e – soprattutto – grande conoscitrice delle erbe che compongono il verde della Val di Scalve, e che restituiscono a chi prova la sua cucina il gusto di un mondo quasi perduto.
«Prima mangiate», ci dice Mea quando ci accoglie all’ingresso, indaffarata per il pranzo eppure senza un solo capello fuori posto, il caschetto castano in ordine e un sorriso deciso sul bel viso magro. «Poi vi racconto il cuore del ristorante».
La “Cuoca dei fiori”
Uno dopo l’altro, ci arrivano sul tavolo degli squisiti tagliolini di ortica con pesto alle erbe di campo e guarniti da fiori di malva, margherita, calendula e borragine; poi le Creste Scalvine, ravioli locali su un letto di patate di Pradella e condite con burro e salvia dell’orto; e ancora, lichene islandico con barbabietola rossa, patate e aceto, polenta con i finferli...
In Val di Scalve, Mea Tagliaferri è conosciuta come la “cuoca dei fiori”.
Il motivo è presto detto, e lo scopriamo boccone dopo boccone, deliziati da piatti che farebbero invidia a un ristorante quotato in città e che invece sono qui, montanari e valligiani al cento per cento. Oltre ai licheni delle alte vallate alpine (che raccoglie a mano il marito di Mea, Antonio, durante le sue ricerche di minerali e fossili), oltre alle erbe selvatiche raccolte di stagione in stagione nei prati circostanti, sono infatti i fiori a comporre la geografia dei sapori costruiti da questa donna dalle mani d’oro. Fiori selvatici, oppure coltivati nell’orto che abbraccia il ristorante: è lì, scopriamo, che batte il vero cuore dei piatti di Mea.
Perché, ci spiega la donna, «è solo dai sapori locali, davvero a chilometro zero che può nascere una cucina autentica, sincera, buona, sana».
Tra erbe e ortaggi antichi
Nel rigoglioso regno verde sul retro della struttura, Mea si muove come tra amici di vecchia data. Accarezza le foglie, ci mostra i cespugli di aromatiche e i pennacchi verdi dei diversi ortaggi: lì le barbabietole, lì le zucche, lì le patate… «La patata di Pradella è una varietà locale che abbiamo recuperato noi. Ha la buccia sottile e un sentore delicato, come di vaniglia, ed era una coltura praticata nei secoli passati un po’ dappertutto, qui in zona», racconta la donna.
Anche la patata di Pradella – come accade a tantissime varietà di ortaggi locali – ha rischiato di essere soppiantata da altre varietà, non fosse stato per l’impulso di un grande nome della cucina italiana: il critico e scrittore enogastronomico Luigi Veronelli, che ricordava dalla villeggiatura giovanile in alta Val di Scalve il sapore di questo squisito tubero e non mancava di esaltarne le qualità… Così, Mea ha iniziato a cercarla tra gli anziani della valle, per poi rimettere a coltura la varietà proprio qui, nel suo orto.
«Nella nostra cucina non usiamo colture che provengono da fuori valle, usiamo esclusivamente questa varietà. Perché fa parte della nostra storia: la patata di Pradella ha più di 200 anni, pare fosse stata portata quassù per la prima volta a inizio Ottocento. Per noi è importante recuperare questi sapori, e innovarli anche: la cucina è fantasia, non attaccamento al passato. Ma le radici contano, e noi cerchiamo sempre di tradurre la tradizione e i prodotti del territorio in piatti gustosi, delicati e sempre nuovi».