Lo raccoglievano i minatori, su tra le aspre aperture alpine della Val di Scalve. Lo raccoglievano perché faceva bene, era sostanzioso, aiutava a combattere le malattie dei bronchi e a variare la dieta povera delle terre alte bergamasche. Oggi è rimasto una tradizione per pochi appassionati, che riscoprono il valore delle proprie radici anche passando per uno dei sapori più caratteristici della zona: il lichene islandico.
Facciamo un passo indietro. Perché il lichene, e che c’entrano i minatori? E soprattutto – che è poi la prima cosa che ci siamo domandati anche noi – davvero si mangiano i licheni?
Per rispondere a queste domande è necessario fare un passo indietro. Siamo in Val di Scalve, piccola vallata prealpina bergamasca, incuneata tra la Valtellina e la Val Camonica, laddove le Orobie si alzano verso il cielo in una corona di monti aguzzi e severi, austeri, con le viscere ferrose apprezzate fin dai tempi dei Romani. E’ sempre stata una terra di miniere e minatori, questa: tunnel e cunicoli scavati nella terra da braccia che non vedevano la luce se non entrando e uscendo dalla galleria, e in inverno nemmeno quella, un mondo sotterraneo di dignità conquistata scavando ferro dalla montagna. Ed era proprio lassù che i minatori, quando potevano, andavano a cercare il lichene, che cresceva spontaneo in Val di Scalve e nella vicina Val Camonica.
Sapore amaro e grande consistenza
«L’unica varietà commestibile è il lichene islandico», ci spiega Lanfranco Grassi, gestore dell’hotel e ristorante a conduzione familiare Edelweiss di Schilpario, l’ultimo dei paesi della Val di Scalve. «Cresce solo oltre i 2000 metri di quota, e va selezionato e raccolto rigorosamente a mano».
Il lichene islandico con le patate, accompagnato con la polenta e alcune fette di Spalla di Schilpario, è uno dei piatti forti della sua proposta gastronomica: ed è infatti lui stesso con la sua famiglia a salire in quota ogni estate, tra la fine di agosto e i primi di settembre, per raccogliere i ciuffi di lichene che, una volta seccati, dureranno fino all’anno successivo. Un lavoro lungo e faticoso, ci spiega, perché il lichene cresce a livello di terra, nascosto dagli altri arbusti, in simbiosi con rocce o tronchi, e la sua raccolta presuppone lunghe ore con la schiena chinata, in condizioni tutt’altro che ottimali o comode. «Ma ne vale la pena, perché rappresenta una parte importante della storia di questa valle. Con una giornata sola di raccolta, abbiamo lichene a sufficienza per l’intero anno: ha una grande resa».
Una volta raccolto, il lichene viene fatto seccare su apposite griglie così che possano scendere tutte le impurità. Poi, può essere conservato a lungo in sacchi di iuta, pronto per essere fatto rinvenire in acqua bollente. Caratteristico è il sapore, leggermente amarognolo, che viene solitamente valorizzato con l’aggiunta di una nota acidula, aceto balsamico o di mele.
Licheni e miniere
Il legame tra il lichene e il mondo delle miniere scalvine è antico. Le miniere di ferro erano infatti collocate in quota – a Schilpario, al Passo della Manina o alle pendici della Presolana – ed era quindi facile per i minatori andare in cerca di questo prezioso alimento per le proprie famiglie. Con tutti i pro e i contro del caso. «Nei vari villaggi minerari abitavano all’incirca 500 persone», racconta Antonio Pizio, appassionato cercatore di minerali e grande conoscitore del mondo sotterraneo della sua valle.
«Anticamente, quindi, il lichene era quasi scomparso perché erano in troppi a raccoglierlo. Dopotutto faceva bene, aiutava a combattere le malattie e integrava una dieta altrimenti poverissima. Il pranzo della festa per quelle persone consisteva nel lichene con fagioli e baccalà».
Con la chiusura delle miniere e il progressivo spopolamento delle montagne, a partire dagli anni Sessanta, anche questa conoscenza gastronomica è andata scemando. Ci sono voluti così anni affinché si tornasse a valorizzare il lichene quale piatto tipico dell’alimentazione scalvina. «Oggi è una prelibatezza», ci conferma Antonio. «Ma è utile ricordare che si è trattato per tanto tempo di un piatto povero, anzi poverissimo. E’ un cibo che ha una storia, e come tale va mangiato anche oggi».
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