Parlare dell’abitare le terre alte. Uscire dalla retorica idealizzata del “borgo”, cercando invece nuove chiavi di lettura per un fenomeno complesso e articolato, frutto di scelte obbligate, di idealismi da nutrire, di necessità personali e spirituali che la città non riusciva più a soddisfare.
Dietro a ogni persona che sceglie di tornare o di restare a vivere in montagna (o che subisce questa scelta: non dimentichiamoci che non per tutti l’alternativa è sempre possibile), c’è una storia personale e intima.
E mentre oggi il tema del “riabitare” si diffonde a macchia d’olio, diventando il paradigma teorico di una “resistenza” e di un cambiamento possibili, è necessario – credo – abbandonare la narrativa estetizzante, idilliaca e romanticizzata della montagna, a favore di un dibattito che eviti polarizzazioni e che si nutra della complessità geografica, culturale e abitativa del territorio montano. Un dibattito concreto, che non neghi i problemi e le difficoltà pratiche quotidiane e non si permetta di derubricarle a stupidaggini, questioni secondarie rispetto al piano superiore della teoria, dell’idealismo che guida l’agire. Qualsiasi resistenza, resilienza o rinascita teoriche vanno a farsi benedire se, prima, non ci si occupa di ciò che rende una vita dignitosa, anche per chi vive in quota: lavoro, servizi, casa, energia, calore, famiglia.
Erica Balduzzi, 22 dicembre 2021