lunedì , 16 Settembre 2024

Migrazioni verticali: salire in montagna ci salverà? Intervista ad Andrea Membretti

La montagna ci salverà? È questa la domanda che si è posto un gruppo di ricercatori analizzando i fenomeni migratori interni connessi con le terre alte, ed è anche il sottotitolo del recentissimo volume dal titolo “Migrazioni verticali. La montagna ci salverà?”, edito da Donzelli Editore e curato da Andrea Membretti, Filippo Barbera e Gianni Tartari con contributi di una decina di altri autori e autrici. Una pubblicazione, questa, snella solo in apparenza, perché mettendo a sistema i dati raccolti nel corso del progetto di ricerca MICLIMI (www.miclimi.it) solleva riflessioni di enorme attualità: cambiamento climatico, risposta adattativa al mutare delle condizioni di vita, ma anche nuove forme di lavoro e processi di affermazione di un “diritto alla montagna” che la tuteli come bene comune e non come terra di conquista sono solo alcuni dei temi affrontati nel volume. Con un approccio multidisciplinare e l’urgenza narrativa di osservare e descrivere un nuovo, possibile trend di movimento e connessione tra città e montagna, tra pianure e terre alte, gli autori dipanano il filo della riflessione sull’impatto della questione climatica sul concetto migratorio verso la montagna attraverso la lente di sguardi diversi tra loro ma strettamente intrecciati. È proprio per parlare di questo libro e delle importanti tematiche che esso solleva, che ho intervistato Andrea Membretti, sociologo specializzato nelle aree interne montane, professore di Sociologia del territorio all’Università di Pavia e curatore del volume [NdA: l’intervista è stata pubblicata su l’AltraMontagna il 2 agosto ’24].

Andrea Membretti, grazie per questa intervista. Prima di entrare nel vivo del libro, ti va di raccontare il tuo percorso e come questo ha influito sull’approccio che avete scelto di dare alla pubblicazione?

Occupandomi di sociologia del territorio con uno sguardo specifico sulle aree interne montane, le tematiche connesse alle migrazioni, allo spostamento di persone e alle nuove modalità di abitare la montagna fanno da sempre parte del mio angolo visuale. Sono temi che ho seguito e continuo a seguire sia a livello di ricerca scientifica, sia di sviluppo di progetto specifici, tra cui lo Sportello Vivere e Lavorare in Montagna della città metropolitana di Torino, attivo da circa sette anni, oppure la Scuola di Montagna, una formazione residenziale per aspiranti montanari giunta ora alla quarta edizione.

Questo per dire che il comune denominatore del mio percorso, nella logica della sociologia del territorio, è sempre stato il rapporto tra la società e l’ambiente, e il modo con cui i diversi gruppi sociali interagiscono con questo ambiente: va da sé che la tematica della “migrazione verticale” verso le terre alte si inserisce a pieno in questo campo di interesse, soprattutto se in essa incidono anche le dinamiche climatiche.

Veniamo al libro: come nasce “Migrazioni verticali” e perché avete ritenuto significativo lavorare a un progetto simile?

Il volume è frutto di una riflessione nata intorno ai dati della ricerca MICLIMI (Migrazioni Climatiche e Mobilità Interna della metromontagna padana), condotta e coordinata nel 2023 con l’associazione italiana del patto per il clima euclipa.it insieme a con diversi colleghi. La ricerca si poneva l’obiettivo di verificare se e in quale misura il cambiamento climatico sia un driver si spostamento delle persone verso la montagna, con l’idea di comprendere – al di là delle narrazioni spesso fuorvianti sui “nuovi montanari” – quanto il tema climatico sia sentito da chi abita in un contesto urbano. Il focus era quindi principalmente sugli abitanti della Pianura Padana, e delle città di Torino e Milano in particolare, e andava a comporre un quadro composito delle nuove popolazioni metromontane attuali: in questa analisi, il clima ci sembrava una variabile importante. La ricerca ha dato origine a una riflessione multidisciplinare, che è poi sfociata in “Migrazioni verticali”.

Il clima come driver di migrazione, dunque: ma cosa si intende per migrazione, in questo contesto?

Uno dei punti focali di “Migrazioni verticali” era per noi la necessità di risignificare il concetto di migrazione, di decostruire l’etichetta che questo termine si porta addosso. Perché? Semplicemente perché la migrazione in generale – anche quella legata a fattori climatici – è un’esperienza che riguarda o tenderà a riguardare la gran parte di noi, anche nel Nord globale. È quindi di fondamentale importanza uscire dall’idea che i flussi migratori riguardino solo altri luoghi e altre genti, che siano altro da noi, così come lo è dare tridimensionalità alla questione migratoria: accanto alla migrazione internazionale, esistono infiniti flussi di migrazioni interne, spesso poco analizzate perché poco impattanti a livello geopolitico ma non per questo meno significative a livello di analisi sociale e territoriale. Lo spostamento verticale dalle metropoli padane alle montagne alpine o appenniniche è appunto una migrazione interna, attuale o potenziale a seconda dei casi, che si colloca perfettamente in questa disamina, e la nostra idea è appunto quella di portare a un livello di normalità una tematica – la migrazione – che altrimenti viene sempre raccontata come catastrofica, e che invece, anche grazie ai mutamenti climatici, andrà progressivamente ad accomunare molte categorie di persone che nella rappresentazione mediatica corrente sembrerebbero lontane da essa.

Dopotutto, il concetto di migrazione verticale non è un termine sociologico: deriva dalla biologia, e designa lo spostamento verso l’alto di specie animali e vegetali in relazione al cambiamento climatico. Se risale la vegetazione e gli animali, allora sta risalendo anche l’uomo? Siamo tutti accomunati dalla necessità dell’adattamento.

Eppure, secondo quanto emerso dalla ricerca e riportato nel libro, la questione climatica oggi sarebbe solo uno dei fattori che spingono sempre più persone a guardare alle terre alte come luogo di spostamento e di lavoro, non di certo il primo… Che impatto ha dunque il cambiamento climatico nella decisione di migrare verso l’alto?

Il fattore climatico si sta imponendo non tanto come driver primario di migrazione, quanto piuttosto come fattore capace di esacerbare e potenziare altre dinamiche. Mi spiego meglio. Nel corso degli anni, con i colleghi avevamo già analizzato molti dei driver che portavano nuove persone in montagna: ci sono ad esempio i migranti internazionali, spostatisi non per motivi climatici per per la ricerca di lavoro o perché trasferiti coercitivamente nei centri di accoglienza nelle aree interne; ci sono i nuovi montanari, mossi dal desiderio di cambiare vita in generale rispetto alla metropoli. Poi c’è stato il COVID, e con esso la ricerca di spazi aperti, che si è combinata con la possibilità del lavoro da remoto. Ecco, tutti questi fattori di spostamento verso le terre alte continuano a essere importanti: tra di essi, il clima è solo uno dei diversi driver, non l’unico. E questo è un dato interessante, perché la preoccupazione per il cambiamento climatico intercetta e catalizza una serie di altre dinamiche già attive ma non si pone come driver monocausale.

Certo, il clima inizia a essere percepito come fattore sempre più importante; nelle survey che abbiamo condotto, è emersa molta preoccupazione per le ondate di calore in città, per gli eventi meteorologici estremi o per il rischio siccità: preoccupazione che però continua a sommarsi ad altri interrogativi relativi al lavoro, allo stile di vita, alla possibilità di nuove pandemie.

Il tema della migrazione è solitamente associato a una dimensione di marginalità e di bisogno. Quando tuttavia si parla di migrazione verticale, si fa riferimento a un percorso migratorio che può essere attuato più facilmente da gruppi sociali benestanti, con tenore di vita alto o banalmente con un lavoro che consente lo smart working. La migrazione verticale può essere quindi un driver di gentrificazione dei contesti montani?

Le dinamiche di classe purtroppo sono già in atto, non sono soltanto un rischio futuro. Nel libro analizziamo appunto il caso di Crans Montana, questo resort alpino d’élite in Svizzera come esempio di quella che ho definito “migrazione di classe”. La vedo come una componente molto rilevante per il futuro, e trovo che sia opportuno farvi riferimento per un motivo: perché anche questa migrazione d’élite parte da una dimensione di necessità. Penso ad esempio alle comunità sempre più consistenti di persone molto benestanti che dagli Emirati Arabi comprano casa in Tirolo, perché ormai le estati nei loro paesi risultano invivibili pure per loro. Per una ricerca su questi temi, il dato è significativo: anche le persone che hanno una grande disponibilità economica lasciano trasparire una spinta alla migrazione verticale che non è dettata solo dalla ricerca dell’amenità montana ma anche dalla preoccupazione per il futuro climatico.

Questa spinta verso l’alto crea a livello globale una competizione, e data la loro posizione le Alpi sono e saranno luogo sempre più conteso: di fronte a necessità crescenti, assisteremo a forme di competizione e accaparramento da parte di pochi, un po’ sul modello del land grabbing statunitense.

Se ci aggiungiamo che le porzioni di territorio “comodo” e almeno parzialmente infrastrutturato sono molto limitate, ne discende che probabilmente si vivrà una vera e propria “corsa alla casa” anche al di fuori delle classiche località di vacanza o villeggiatura. Con tutto ciò che ne consegue, perché ovviamente se arrivano sempre più persone disposte a spendere 200mila euro per un rudere e oltre un milione di euro per ristrutturarlo, il mercato finirà per adeguarsi, escludendo automaticamente tutti coloro che non potranno permettersi di spendere certe cifre.

Questo però è un fenomeno che va in parallelo con un altro meccanismo di esclusione dai territori montani, legato al fatto che spesso in questi contesti gli immobili non vengono proprio immessi sul mercato da parte di chi abita i territori. Il risultato? Le persone che vorrebbero trasferirsi in montagna per avviare un’attività o lavorare in smart working si trovano strette tra la gentrificazione da un lato (con relativi costi inarrivabili) e l’inaccessibilità ai beni montani dall’altra.

In questo contesto, secondo te si può democratizzare il percorso di migrazione verticale? Esiste un diritto alla montagna da affermare e tutelare, e che ruolo potrebbero avere le istituzioni in questo senso?

Quello di un “diritto alla montagna” come bene comune è un tema molto scivoloso e contestabile, perché spesso sono gli stessi abitanti storici dei territori montani a non essere propensi a considerare il proprio asset di risorse come un bene comune, neppure in seno alla dimensione comunitaria, con tutto quello che ne discende in termine di deperimento del territorio e mancata fruizione.

D’altra parte, per avere un diritto del genere servirebbero delle istituzioni che lo sanciscano: bisognerebbe ragionare in ottica legislativa e referendaria sul diritto all’accesso a risorse primarie, e considerare la possibilità che il fatto climatico introduca una forma di diritto ad accedere a risorse primarie quali salire di quota, avere aria e condizioni climatiche diverse, specie per i più fragili (anziani, bambini, persone con patologie respiratorie).

Una soluzione pratica potrebbe anche essere quella di valorizzare in ottica di accessibilità tutto il patrimonio edilizio di ville dismesse, spazi delle diocesi, colonie e alberghi di media montagna in disuso: un patrimonio ad oggi inutilizzato (come ha certificato il lavoro di ricerca del Politecnico di Torino guidato da Antonio de Rossi), ma che potrebbe essere recuperato e messo a disposizione… Se solo si abbandonasse l’idea del “borgo” e la si smettesse di buttare milioni di euro su discutibili operazioni di maquillage decontestualizzato su piccoli paesini, e si scegliesse invece di investire nel risanamento di immobili che potrebbero essere messi a disposizione di fasce maggiori di popolazione, tanto per fare un esempio.

Non sembrerebbero temi prioritari nel dibattito politico attuale…

E infatti non lo sono. Mi sono letto tutto il ddl della legge sulla montagna, e non si fa il minimo cenno alle varie questioni connesse allo spostamento di persone in questi territori. Non mi stupisce: la montagna è rappresentata sempre come luogo identitario, che deve preservare i suoi valori e le sue professioni tradizionali, e non si vuole considerare il suo rapporto strettissimo – e da sempre esistito – con la città, un rapporto che ha permesso nel tempo la sopravvivenza di entrambi gli ambienti.

La montagna presente nel dibattito pubblico è la montagna come alterità: un’immagine da preservare nella sua purezza inventata.

Ma, come emerge anche dalla ricerca, essa non corrisponde al vero: sono altre le sfide che aspettano i territori montani, e saranno sempre più pressanti. L’auspicio è che se ne possa prendere atto, e lavorare insieme di conseguenza.

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