Cosa significa scrivere di aree interne? Cosa significa parlare di turismo, promuovere territori poco battuti, raccontare borghi e paesi e dare spazio e voce alle terre celate di una regione come la Calabria, che ancora si scontra con pregiudizi e ignoranza? Se l’è domandato Debora Calomino, giornalista e ricercatrice, autrice dei libri “Visioni turistiche” e “Storie luminose di una Calabria che fiorisce”, che ha fatto della promozione turistica e dell’analisi sulle dinamiche delle aree interne i pilastri del suo lavoro, e che ha scelto di restare a raccontare territori montani minori, poco conosciuti eppure capaci di offrire strade alternative alle scelte turistiche “classiche”.
Buongiorno Debora, prima di entrare nel vivo del tema della promozione delle aree interne calabresi, ti va di delineare il tuo percorso professionale?
Inizio dicendo che il mio percorso di scrittura e giornalista è sempre andato di pari passo con l’approfondimento e il lavoro in ambito turistico. Ho cominciato a lavorare come giornalista pubblicista nel 2013, scegliendo un ambito specifico, e cioè il racconto di quella che potremmo definire “Calabria positiva”. Studiando Scienze del turismo e valorizzazione dei sistemi turistico-culturali all’Università della Calabria, dove mi sono laureata nel 2011, mi ero infatti resa conto che esisteva una narrazione alquanto negativa della mia regione: erano in pochi, allora, a raccontare ciò che questo territorio aveva da offrire. Così, in concomitanza con altre esperienze nel settore turistico, ho pensato che potevo – e volevo – dare un mio contributo alla narrazione della mia terra.
Ho iniziato quindi a scrivere di luoghi da non perdere in Calabria, sia online che su diverse testate cartacee a livello nazionale, in ambito turistico: con alcune colleghe di università ho fondato un blog dal nome Scopri la Calabria (ora non più attivo), che è stata forse una delle prime esperienze di questo tipo sul mio territorio e ha favorito la nascita di altre vetrine virtuali simili, spazi online per provare a sovvertire questa narrazione fuorviante e limitata della regione. La vera spinta a proseguire su questo binario, però, è arrivata nel 2018, quando ho vinto il premio giornalistico Terre di Calabria nella sezione Turismo, Ambiente e Cultura proprio con un reportage sui piccoli borghi della mia regione. In quel momento, mi sono detta “Ecco, forse questa è la direzione giusta per il mio lavoro”.
Anche perché – aggiungo – combatto da tempo con l’idea, molto diffusa in Calabria, secondo cui io come tanti altri dovremmo andarcene al nord o all’estero, perché qui non ci sono prospettive. Ebbene, io invece dico: perché dovrei andarmene quando so che qui, in qualche modo, posso provare a fare la differenza, seppur minima? Perché andare altrove, quando ciò che posso e voglio fare è raccontare queste terre, ancora sconosciute e spesso un po’ bistrattate?
Come si inserisce in questo percorso la tua ricerca accademica in ambito aree interne calabresi e turismo?
Io sono cultore della materia per Marketing Turistico e Territoriale dal 2020, e sono stata selezionata per una borsa aggiuntiva per un dottorato comunale, nel quale mi è stato assegnato un progetto già scritto, incentrato sulla Sila e sulla Presila calabrese e nello specifico sulle risorse enogastronomiche del territorio, sul turismo gastronomico ed esperienziale. Grazie a questa esperienza, tutt’ora in corso, sono tornata in parte al mio primo “amore professionale”, cioè il turismo e le sue declinazioni e potenzialità per i territori interni.
Questo progetto di ricerca, affiancato al lavoro giornalistico, ti sta offrendo uno sguardo inedito sulle imprese agricole ed enogastronomiche di quest’area interna: che cosa ne emerge? Qual è la Calabria che stai incontrando?
Grazie a questo progetto, sto scoprendo realtà veramente interessanti, storie di restanza e resilienza. Non solo: mi sto trovando a interagire con imprenditori agricoli, in maggioranza giovani, che hanno deciso di rimanere o tornare. Sono storie di vita interessanti e articolate, storie di innovazione, storie di gente che sceglie quest’area interna e vi porta le proprie competenze, opera con gli e-commerce, vende all’estero e diversifica i canali di vendita… Insomma, al netto delle difficoltà oggettive di operare in un territorio impervio e poco infrastrutturato, ciò che mi ha colpito è la grandissima voglia di farcela, unita a una ricchezza umana e comunitaria che altrove al giorno d’oggi parrebbe impossibile, e che in queste zone è invece forte, radicata e condivisa. Non ti nascondo che, all’inizio, ero quasi a disagio nel condurre le interviste che mi servivano per il progetto di ricerca, perché mi sembrava di invadere gli spazi privati di queste persone: ma la verità è che hanno una grande dignità e molta voglia di raccontare, di condividere il desiderio di far rivivere queste aree.
Quella di restare non è quindi una scelta “imposta”, un’impossibilità di andarsene, ma una decisione consapevole e maturata anche dopo periodi trascorsi altrove?
Alla domanda “Ma voi rifareste questa scelta?” ho sempre ricevuto risposta affermativa, e le motivazioni hanno sempre a che fare con la qualità della vita, con l’ambiente sano, con la dimensione comunitaria viva e ricca. Quello che sta emergendo, secondo me, è la consapevolezza che si tratta sì di territori altamente rarefatti, ma su cui insiste ancora un’umanità che ne costituisce il vero capitale, la vera ricchezza.
Nella mia ricerca, io cerco di capire se qui ci siano le basi per costruire dei percorsi turistici esperienziali, nella consapevolezza che si tratta di territori distanti dai servizi essenziali e carenti di infrastrutture, oltre che tendenti allo spopolamento: ma chi sceglie di rimanere, lo fa perché trova le risorse dove altri vedono solo il “niente”. Credo siano esempi da raccontare, e soprattutto da seguire.
Quando si parla di aree interne, tra le tematiche più importanti ci sono quelle connesse all’invecchiamento e allo spopolamento dei paesi. Questo vale anche per i territori della Sila e della Presila, ma è evidente che non è la sola realtà da raccontare…
C’è spesso questa idea del calabrese che vuole solo essere salvato, ma non è sempre vero: ci sono tantissime persone che hanno deciso di crearsi un futuro qui, e che non puntano affatto soltanto all’assistenzialismo. Io non dico che sia sbagliato andarsene: ma se qualcuno decide di rimanere e crearsi un futuro qui, deve essere raccontato all’esterno. I territori non sono solo i paesaggi, sono soprattutto le persone… E per mandare avanti la Calabria bisogna starci. La regione non vive solo del turismo: vive anche di turismo, e come tutte le altre regioni ha una serie di servizi e imprese (piccole imprese soprattutto), quindi perché non raccontarle? Perché non dare solo voce? Abbiamo importanti università che attirano studenti dall’estero, altra cosa che non si dice mai. È una terra che dà tante opportunità a chi le sa vedere. E con la questione aree interne, credimi, c’è un mondo da scoprire.
Qual è la cosa che più ti ha colpita, osservando e studiando queste aree interne?
C’è questo stereotipo dell’arretratezza di chi vive in montagna rispetto ad altri, e questo vale nelle aree montuose della Calabria così come in altri territori del nostro paese. Però è uno stereotipo! Secondo la mia esperienza di ricerca e scrittura, c’è una voglia di incontrare l’altro, di cultura…
Ti cito un comune attenzionato dalla mia ricerca, Longobucco: lì ho notato una voglia di fare che spesso, invece, sulle coste manca, perché si tende ad appoggiarsi esclusivamente al turismo balneare. Alcuni esempi? Il laboratorio di uncinetto, portato avanti dalle anziane del paese per insegnare quest’arte alle giovani donne – quindi, un’attività ricreativa e creativa che unisce le generazioni – oppure il laboratorio di cesteria e intreccio, nel quale un anziano artigiano insegna ai giovani come si intrecciano i cestini con materie prime locali. Ma ti potrei citare anche i laboratori di tessitura o quelli di poesia, curati questi ultimi dai giovanissimi del territorio, oppure i gruppi di lettura organizzati dalle donne, che ogni settimana si incontrano per parlare dell’ultimo libro letto. La senti, questa vitalità, anche culturale? Questa cosa mi ha colpito molto, e racconta molto di ciò che sono effettivamente le aree interne: altro che siccità culturale! Io ci sto trovando senso di comunità, di condivisione, di rete. La rete è fondamentale. Gli imprenditori agricoli stessi tra loro fanno rete, per poter avere insieme quella forza che da soli non possono avere. E bada bene, non si tratta di mistificare acriticamente un territorio che ha le sue difficoltà: si tratta secondo me di guardare oltre, di riconoscerne il potenziale. Credo sia molto importante, anzi, fondamentale.
Aree interne come laboratori di innovazione sociale, ambientale e culturale, dunque?
Sì, assolutamente, perché in questi territori si trovano o costruiscono strade alternative, impensabili altrove, e proprio in virtù del “poco” che c’è.
Ti faccio un altro esempio. Nella mia ricerca sono entrata in contatto con le comunità Arbëreshë della Sila crotonese, che portano avanti iniziative interessantissime, rievocazioni storiche e culturali, corsi di cucina… Tutto concorre a sviluppare il racconto di una Calabria diversa e a valorizzarne le radici arbëreshë, che in passate venivano quasi taciute ma che oggi sono invece – fortunatamente, direi – motivo di vanto. Ecco, credo che queste siano le basi per incrementare un turismo “sano”.
Quando si parla di aree interne e turismo, il rischio è che la narrazione di un territorio venga “imposta” forzatamente sulle comunità che lo abitano, che finiscono così per diventare quasi oggetti scenografici anziché attori protagonisti nella propria terra. In questo caso però, da quanto mi racconti, c’è invece una situazione diversa: territori, voci e persone che si raccontano come soggetti, anziché essere raccontati come comparse. La trovo una potenzialità enorme, capace di promuovere un turismo che non sia fagocitante dell’identità dei luoghi…
L’innovazione principale che sto riscontrando è proprio questa: sono gli abitanti che si raccontano in maniera genuina, attraverso media contemporanei come i social. Sono loro che decidono di raccontarsi, e di raccontare ciò che il loro territorio ha da offrire. Ultimamente si sente spesso la narrativa negativa dei borghi, che sarebbero diventati parchi gioco o non luoghi… Io non sono del tutto d’accordo. Ci sono borghi che effettivamente spesso a livello turistico diventano delle specie di Gardaland; ma ci sono anche luoghi che sono vivi, abitati, in cui il turista ha modo effettivo di incontrare il territorio attraverso la sua gente.
Nel momento in cui una destinazione vuole emergere in ambito turistico, la narrazione deve partire da ciò che un luogo è per chi lo vive, da ciò che fanno i suoi abitanti. Quando una cosa viene realizzata perché ci crediamo e perché fa parte della nostra cultura, il turista lo percepisce. Spesso penso che il turismo venga demonizzato per alcune delle forme che ha assunto: si dice che “non è la panacea di tutti i mali”, e sono d’accordo. Però potrebbe essere un modo per risvegliare l’orgoglio e il senso di appartenenza degli abitanti dei territori, soprattutto nelle aree interne: anche grazie al turismo in questi territori interni calabrese sta risorgendo il desiderio fortissimo di ricostruire un’immagine dei propri territori che nelle generazioni precedenti era stata distrutta.
Ci sono delle storie che ti hanno colpito più di altre, tra tutte quelle che stai incontrando per il tuo lavoro di giornalista e per la tua ricerca? Ti va di condividerne qualcuna?
Ci sono tante storie di giovani che hanno studiato altrove, hanno preso anche lauree importanti, e poi sono tornati per portare avanti le attività di famiglia. Mi viene in mente il caso di una giovane donna di Longobucco, figlia di casari, che è andata a studiare zootecnia fuori dalla Calabria ed è ritornata con un bagaglio culturale tale da permetterle di rilevare l’impresa di famiglia e di innovarla.
Un’altra storia particolarissima riguarda un un musicista. Facendo dei campionamenti del suono delle api, gli è venuta la voglia di produrre a sua volta miele biologico: oggi vive felicemente in questo paese di area interna dopo aver vissuto a lungo all’estero, continua a suonare e incidere e registrare e nel frattempo produce miele biologico, che vende tramite e-commerce nei paesi UE. Noto che in queste aree c’è la capacità di trovare le soluzioni dove la gente vede solo problemi. Per questo ho scelto di raccontarle.
[NdA: questo articolo è stato pubblicato per la prima volta l’8 novembre ’24 su L’Altramontagna]