«Fare da ponte, ristabilire un rapporto con il nostro territorio e colmare quella lacuna di conoscenze e maestranze che hanno per secoli caratterizzato la vita nelle nostre valli, e che negli ultimi decenni sono andati perduti». Quando Antonio Carminati parla del Centro Studi Valle Imagna, lo fa con la voce carica di passione e dedizione: non solo perché attualmente ne è il direttore, ma soprattutto perché l’associazione rappresenta – per lui come per gli altri soci – una necessità fondante e identitaria, un tassello importantissimo per salvaguardare tradizioni, memorie, cultura ed economia di questa valle bergamasca incuneata tra la Valle Brembana e la provincia lecchese e distesa ai piedi del Resegone.
«Ma non abbiamo mai voluto essere soltanto un consesso accademico» puntualizza Antonio «L’obiettivo dell’associazione è sempre stato quello di stimolare nuove prospettive di sviluppo, legate però alla cultura, all’economia e all’identità valdimagnine».
Oggi il Centro Studi Valle Imagna è in prima linea per salvaguardare, tutelare e promuovere il patrimonio materiale e immateriale della valle, e promuove anche progetti concreti di ripopolamento e lavoro in alcune delle contrade più caratteristiche del territorio.
Tetti in piöde e un patrimonio architettonico che rischiava di sparire
Il Centro Studi Valle Imagna, racconta Antonio Carminati, è nato nei primi anni ’90, dall’aggregazione spontanea e dal basso di diversi soggetti che hanno sentito l’esigenza di confrontarsi attorno a un’esigenza che, in quel periodo, iniziava a farsi sentire con molta intensità: il rischio di scomparsa dei manufatti di edilizia rurale della tradizione della valle, minacciati dall’avanzata del cemento. «Sto parlando di case, stalle, fontane, tribuline (le cappelle votive, nda)» spiega Antonio «In generale, di tutto quell’insieme di strutture che avevano definito e caratterizzato la vita quotidiana delle famiglie contadine nelle contrade e nei paesi della valle, e che stavano rischiando di scomparire a causa della progressiva cementificazione degli abitati valligiani… I primi anni Novanta erano ancora anni di pieno incremento edilizio nelle nostre valli: si costruiva ancora molto, troppo, perché si era convinti che lo sviluppo fosse legato all’industrializzazione, all’urbanizzazione. Eppure, ci si iniziava a interrogare a riguardo: che ne sarebbe stato, in questo modo, delle architetture che avevano caratterizzato per secoli il paesaggio, e delle maestranze artigiane a esse collegate?».
Da questa sensibilità crescente, un primo nucleo di persone – studenti, docenti universitari, amministratori locali, imprenditori, operai – aveva iniziato a incontrarsi per ragionare sulle tematiche connesse alla tutela del proprio patrimonio e riflettere sul valore identitario veicolato da questi manufatti. Un esempio su tutti? I tetti in piöde, tipica struttura di edilizia rurale valligiana, caratterizzata dalla sovrapposizione sapiente – e codificata fin dal Medioevo – di lastre di pietra a secco anziché coppi o ardesia per la copertura di abitazioni e stalle: oggi, spiega Antonio, sono pochissimi gli artigiani ancora capaci di coprire le abitazioni in questo modo tradizionale.
«I tetti in piöde sono stati il tema delle prime riflessioni del Centro Studi, che tuttavia non era ancora ufficialmente costituto. In quel primo periodo, si iniziava a ripensare l’uso della pietra tradizionale nell’edilizia, e abbiamo tentato di far introdurre nei regolamenti edilizi dei nostri paesi delle norme specifiche che rendessero più facile anche per i privati tornare all’uso dei materiali tipici del nostro territorio».
Parola d’ordine: sporcarsi le mani
L’associazione fu fondata ufficialmente il 31 gennaio 1997, dopo alcuni anni di attività informale e convegni a tema, con il nome di Centro Studi di Cultura, Economia e Amministrazione della Montagna: «Non si voleva però creare un cenacolo accademico, un’enclave di persone concentrate esclusivamente su convegni e pubblicazioni» puntualizza Antonio «Per questo, l’elemento culturale – che pure riteniamo fondamentale – è stato agganciato già dal nome agli altri due elementi, cioè l’economia e il governo del territorio. Attraverso la conoscenza e la memoria storica, il gruppo ha voluto fin da subito diventare un laboratorio di pensiero per favorire il cambiamento, un ponte capace di proporre modelli di sviluppo per le nostre terre alte in continuità con il loro passato, anziché in opposizione».
Ecco allora il ruolo fondamentale del Centro Studi nel promuovere ristrutturazione conservative di contrade simboliche per la Valle Imagna, come Contrada Roncaglia o Ca’ Berizzi, ma anche e soprattutto la promozione di attività lavorative integrate nel tessuto valligiano e capaci di ridare senso autentico ai luoghi dei paesi: come l’Antica Locanda Roncaglia, che si occupa di ristorazione e accoglienza, oppure la Bibliosteria Ca’ Berizzi, spazio di convivialità e approfondimento di tematiche connesse all’economia locale, alla vita rurale e alle tradizioni montane. Grazie, anche, alla promozione e apertura di biblioteche tematiche, sale di lettura ed esperienze di incontro e scambio.
«La parola d’ordine» spiega ancora Antonio «è sporcarsi le mani. In montagna serve concretezza, non solo teoria. E la gente delle nostre terre alte si fida solo di chi vede al suo fianco, lavora volentieri solo con chi si impegna insieme».
A cavallo tra montagna e pianura
Per comprendere meglio la dinamica che ha fatto insorgere l’esigenza di tutelare il patrimonio materiale e immateriale locale e di ragionare su modelli di sviluppo che inglobassero le radici montane del territorio anziché rigettarle, bisogna fare un passo indietro e osservare il territorio delle Prealpi Orobie e il suo stretto rapporto con la pianura, vicinissima geograficamente e da sempre intrecciata con queste valli. «Le valli delle Prealpi bergamasche sono sempre state considerate quasi valli di periferia urbana, una sorta di terra di mezzo a cavallo tra montagna e pianura: un luogo cioè in cui si sono sempre intrecciati modi di vivere e lavorare tipici sia dei contesti urbani padani che dell’alta montagna. E questo si vede anche nelle esperienze economiche ibride delle nostre valli: qui, è sempre stato possibile incontrare sia la piccola proprietà agricola tipica delle terre alpine, sia forme di mezzadria e di organizzazione del suolo tipiche della pianura» spiega ancora Antonio «Fino ai primi del Novecento, c’era molto equilibrio tra questi influssi economici. Un equilibrio che è venuto meno quando la cultura forte della pianura, legata ai processi industriali e urbani, ha preso il sopravvento. Il risultato? Un’intensissima emorragia demografica e di forza lavoro: data la vicinanza geografica delle nostre valli con la pianura e le compagini urbane, esse sono state le prime a fornire manodopera alle grandi industrie. Qui ce li ricordiamo ancora, i pullman che fino agli anni Settanta portavano a Milano migliaia di persone, contadini divenuti operai, per lavorare nelle grandi fabbriche come la Falc, la Breda, la Pirelli».
Ed è stato questo periodo di passaggio tra modello piccolo-agricolo e modello industriale a determinare il venir meno del patrimonio tradizionale di saperi, conoscenze, artigianalità del territorio valdimagnino, legato alla terra, all’allevamento e alle produzioni casearie.
Fare da ponte tra ieri e oggi
La situazione attuale sta però nuovamente cambiando. Con la crisi del modello post industriale, infatti, si sta riscontrando un progressivo ritorno alla montagna da parte dei giovani: cresce il numero di ragazzi e ragazze che guardano alla valle come spazio di possibilità e alle radici identitarie come occasione di sviluppo, anziché come limite. «Ma è un ritorno difficile» spiega ancora Antonio «Lo strappo generazionale causato dal mutamento economico e sociale non è soltanto un dato teorico: ha comportato anche un’interruzione nella trasmissione di saperi secolari, e la disgregazione di un bagaglio esperienziale che prima veniva tramandato, e che oggi invece un giovane desideroso di tornare a lavorare in montagna deve ricostruirsi quasi da zero, perché non c’è quasi più nessuno che glielo insegni».
In quest’ottica, il ruolo del Centro Studi Valle Imagna è dunque quello di fare da ponte, di recuperare la memoria di questi saperi prima che vada persa del tutto e di offrire ai “ritornanti” modelli di sviluppo innovativi perché radicati. «Dagli anni ’40 agli anno ’90 circa, le generazioni delle nostre valli sono passate dalla cultura della pietra alla cultura del cemento, dalla cultura agrosilvopastorale alla cultura della fabbrica. Il passaggio inverso è arduo» racconta ancora Antonio.
«Bisogna riformare le maestranze, ma si fatica il doppio. Ma è questo lo scopo per cui l’associazione è stata costituita: non solo ricreare conoscenze, ma costruire grazie ad esse modelli per ritornare a vivere e lavorare la montagna, e rapporti nuovi con il territorio, che altrimenti resterà destinato a essere soltanto un dormitorio. Non vogliamo che sia così, e mettiamo in campo tutto ciò che possiamo per riallacciare il rapporto tra la collettività valligiana e i propri luoghi».
[NdA: questo articolo è stato pubblicato per la prima volta il 22 novembre ’24 su L’Altramontagna]