Salire in montagna e volgersi verso le terre alte, investendo risorse nella ristrutturazione di una vecchia baita per immaginare – e costruire – una nuova possibilità: quella di offrire una risposta concreta e realistica alle sfide climatiche del presente, e di farlo riabitando le montagne italiane e portando in quota un rinnovato modo di vivere le terre alte. Un’utopia? Forse no. Forse è invece un’occasione per ripensare il clima, la società e le scelte in vista di un domani sempre più difficile. Nel suo ultimo libro “Salire in montagna. Prendere quota per sfuggire al riscaldamento globale” (ed. Einaudi, 2020), il climatologo e meteorologo Luca Mercalli ha raccontato la sua esperienza di riqualificazione e riabitazione di una vecchia casa a Vazon, frazione del comune di Oulx (TO) a oltre 1600 metri di quota. Presidente della Società meteorologica italiana, fondatore della rivista Nimbus e autore di lavori scientifici su clima e ghiacciai e di libri e approfondimenti dedicati al cambiamento climatico, Luca Mercalli ha accettato di essere intervistato per Montanarium, per raccontare la sua esperienza in quota e provare a rispondere ai dubbi delle persone che – sempre più numerose – guardano alle terre alte come possibilità dell’immediato futuro.
Signor Mercalli, cominciamo parlando di clima. Solo pochi giorni fa, a Siracusa sono stati rilevati i 48,8°C, la temperatura più alta mai registrata sul suolo europeo. Quali sono le prospettive climatiche attuali? Come si colloca il “salire in montagna” in questo contesto?
Il cambiamento climatico non è cosa di oggi, sono decenni che ne parliamo e ne paventiamo i rischi e gli effetti. Oggi li vediamo sulla nostra pelle e pare che siano caduti dal cielo, arrivati dall’oggi al domani, ma non è così. Le città di pianura e le coste sono sempre più invivibili. Ormai è prassi comune registrare temperature superiori ai 40°C anche al Nord Italia, in città quali Torino, Milano o Bologna, e sono numeri che nel futuro vedremo crescere ulteriormente, con tutto ciò che ne consegue. Noi avevamo già optato in passato per una vita fuori città, pensando che la collina sarebbe bastata a permettere uno stile di vita neorurale, ma non è così. Le temperature in aumento, la tropicalizzazione del clima e la conseguente diffusione della zanzara tigra hanno compromesso questa possibilità: in questi giorni, a Oulx bisogna stare con l’aria condizionata. A Vazon no, per fortuna. Prendere quota significa trovare un luogo in cui si possano sopportare meglio alcune situazioni estreme che inevitabilmente accadranno, se si continuerà così. Nella consapevolezza che le questioni climatiche toccheranno anche chi vivrà in montagna. Solo, forse, lo faranno un po’ di meno.
Salire in montagna, quindi, è oggi soprattutto questo: sfuggire a ciò che sta capitando, o almeno provarci.
Scegliere di vivere in quota può essere quindi visto come una strategia di adattamento?
Non esistono risposte semplici a problemi complessi. E le crisi climatiche e ambientali non sono complessi: sono colossali, forse i più grandi che l’essere umano si sia mai trovato ad affrontare dacché è sulla Terra. Quindi sì, è certamente una strategia di adattamento, ma non lo è per tutti, per un motivo semplice: sessanta milioni di persone non ci stanno in montagna. Tuttavia, credo possa essere la ricetta giusta per una piccola parte della popolazione, che parte da condizioni già favorevoli (con una casa di famiglia, ad esempio, anche in luoghi considerati “sfigati”) o che è disposta a mettere in atto una certa scelta di vita: qui non stiamo parlando di montagna per il turismo, ma di una forma di resilienza, un’idea di riabitare la montagna e non solo limitarsi a fruirla. In Italia, tra l’altro, la situazione è particolarmente favorevole a scelte di questo tipo…
In che senso?
Abbiamo una conformazione geografica favorevole: c’è in tutto il Paese un’enorme quantità di territorio montano, quasi tutto raggiungibile in tempi assolutamente ragionevoli dai principali centri urbani. Significa che in un’ora, massimo due di strada è quasi sempre possibile raggiungere una città e tutti i principali servizi. Non solo: ci sono decine di migliaia di borgate e frazioni abbandonate. E, fuori dalle grandi località turistiche in quota che esulano dal nostro discorso di reinsediamento, le aree alpine e appenniniche sono piene di proposte per incentivare la gente a venirci ad abitare. Pensiamo anche solo alle varie provocazioni delle “case a un euro”, fatte tutte per incentivare questa migrazione verticale.
Il concetto di “migrazione verticale” ritorna spesso anche nel suo ultimo libro. Rischieremo un esodo dalle città alle montagne? Quali problemi nascerebbero?
Come dicevo, non esistono soluzioni semplici a problemi così complessi. Con il progressivo aumento delle temperature, di sicuro si assisterà anche a un aumento dello spostamento verso condizioni di vita più favorevoli, e quindi verso le terre alte. Ma questa migrazione verticale, se ben governata, può avvenire senza strappi: moderare e guidare una migrazione con dieci anni di anticipo significa evitare il caos. Caos che si tradurrebbe in affollamento in alcune aree, difficoltà di assorbimento dell’impatto antropico, speculazione edilizia, aumento dei prezzi per i ruderi, e via dicendo.
Qual è secondo lei il ruolo delle amministrazioni locali in questo processo di movimento verso le terre alte?
Portare in quota i servizi essenziali, chiedere (e pretendere) nuove leggi per i territori montani, prevenire anziché lavorare in emergenza. Ma anche lavorare sulla frammentazione fondiaria, grande problema tutto italiano: capita infatti che intere aree agricole o abitative siano frammentate in un’infinita quantità di porzioni suddivise tra decine di eredi, anche lontani tra loro.
I Comuni hanno un ruolo fondamentale nel gestire il passaggio alle terre alte, nel favorirlo, nel renderlo fattibile: la burocrazia – ne parlo spesso nel libro – è uno degli ostacoli più significativi per chi voglia intraprendere un questo percorso di “ritorno”, per chi voglia ristrutturare una casa in montagna o pensare di portarvi un’attività.
In un simile contesto, e alla luce della sua esperienza personale, com’è il rapporto tra città e montagna, tra chi è restato ad abitare in quota e chi invece vi arriva da fuori?
Quello del rapporto (e della contrapposizione) tra città e montagna, o meglio tra il cittadino e il montanaro, è un problema annoso. Un problema esaltato dallo spopolamento, che in montagna ha portato a un invecchiamento progressivo della popolazione e spesso anche alla marginalità. Spesso in montagna sono rimaste persone più problematiche – socialmente parlando – di quelle che invece se ne sono andate.
Inoltre, i luoghi che perdono la propria identità fanno più fatica a trovare una collocazione in un mondo che è cambiato.
Questo si traduce talvolta in una fossilizzazione, una sorta di nostalgia non per la miseria del passato, ma per l’idealizzazione di quel mondo che ne era l’origine. In questo contesto, chi arriva dall’esterno costituisce sempre un potenziale disturbo. D’altro canto, è ovvio che chi viene da fuori debba rispettare il luogo e le persone, a maggior ragione se ha scelto di viverci e non di trascorrerci solo la settimana di Ferragosto. Credo sia importante riconoscere che chi arriva da fuori è portatore di risorse ed esperienze, esattamente come chi vive da sempre sul posto. Se ci si fa la guerra, si perde tutti. Fortunatamente oggi abbiamo i mezzi e le risorse per superare questa cosa, e per ricreare comunità montane che siano capaci di rispondere alle sfide del domani.
La montagna come incubatore di nuove esperienze e possibilità, dunque? Sulla base di quali presupposti, e in che modo?
Le scienze sociali come l’antropologia o la sociologia possono dare un grande impulso nel creare relazioni e mix di esperienze, e quindi nel ricreare nuove comunità anche laddove le comunità erano estinte o andavano estinguendosi. In passato, abitare in montagna significava poter fare giusto tre o quattro lavori: il boscaiolo, il pastore, il maestro di sci, la guida escursionistica. Oggi non è più così, oggi abbiamo la possibilità e l’occasione di vivere e lavorare in montagna con mestieri nuovi, di portare in quota esperienze e saperi che prima restavano esclusivamente nei contesti urbani.
Con internet, lo smart working e il telelavoro possiamo portare in montagna decine di nuovi mestieri, che possono contribuire a far rinascere i territori non solo sotto il profilo economico, ma anche sotto quello culturale. La montagna di oggi offre un’enorme permeabilità: andarci a vivere non significa più isolarsi da tutto e da tutti.
Che cosa consiglierebbe a chi oggi progettasse di abbandonare la vita cittadina per salire in montagna?
Il primo consiglio che mi sento di dare è quello di andare a cercare luoghi apparentemente marginali, ma che permettano di avere un basso impegno economico di ingresso, in modo da poter poi dedicare tutte le proprie forze alle riqualificazioni energetiche. Quello della riqualificazione energetica è un aspetto importantissimo da considerare nel budget, se si vuole abitare in una casa moderna ed efficiente (pur essendoci oggi numerosi bonus): meglio optare per una casa più piccola, ma ben strutturata sotto questo profilo, che su una casa più grande ma disperdente. Tenete poi conto del fatto che fare lavori edili in montagna ha un costo maggiore che in città, anche solo perché ci si mette più tempo ad arrivarci e a procurarsi i materiali.
Altra cosa importante: prima di acquistare una casa, consultate le mappe di valutazione idrogeologica di quel terreno, informatevi sull’incidenza di frane o smottamenti e verificate che la casa sia costruita su un terreno stabile, e possibilmente non sull’argine di un fiume o di un torrente.
Infine, una considerazione: fatelo in anticipo. Più tempo passerà, più il gioco si farà duro.
Una chiusa drastica…
Ma necessaria. I problemi del clima toccheranno tutti, anche chi sta in alto. Non è che stando lassù, noi saremo al sicuro e guarderemo il resto del mondo bruciare. Anche qui in quota avremo i problemi della siccità, il rischio degli incendi, e via dicendo. Ci eviteremo semmai il caldo atroce e l’innalzamento del livello del mare. La montagna è un luogo in cui si può sopportare meglio qualche situazione estrema, ma non sarà esente da rischi e problemi.
In questo futuro di cambiamenti climatici, le città rischiano di diventare trappole da cui è difficile uscire. La montagna, invece, pur con le sue asprezze (che non nego), offre la possibilità di maggiore resistenza e libertà per il domani.