mercoledì , 15 Gennaio 2025

«Serve un turismo che non sovrasti i luoghi ma ne incontri l’umanità»: scoprire le borgate montane di San Pellegrino Terme, tra abbandono e storie di restanza

«Fino a pochi anni fa, qui attorno era tutto prato». Chiara Pesenti indica una fitta macchia di boscaglia, alberi snelli di noccioli che svettano verso il cielo limpido e terso: il sentiero si srotola su un manto croccante di foglie secche inghirlandate di brina, e nel bosco gli scrocchi dei passi risuonano netti e cadenzati sul terreno duro, ancora immerso nell’ombra azzurra del mattino montano. «Vedi? Lì c’era una baita; un’altra stalla stava oltre quel dosso». Allungo lo sguardo, ma per scorgere le due costruzioni di pietra mi tocca aguzzare la vista: sono dirute, i tetti sfondati, i muri invisibili dietro la cortina degli alberi. Se lei non me le avesse indicate, le avrei sfiorate senza nemmeno accorgermi della loro esistenza.

Siamo nei boschi che sovrastano il paese di San Pellegrino Terme, in Valle Brembana (BG), famoso in tutto il mondo per l’omonima acqua minerale: appena al di sopra della linea degli stabilimenti termali, dei localini accoglienti e delle architetture liberty, si dipana infatti un mondo prealpino fatto di vecchie borgate, di mulattiere e di piccoli accrocchi di case che sussurrano le vite di solo qualche decennio fa. Oggi, molte di queste case sono abbandonate; molte altre, abitate solo sporadicamente nei mesi estivi. La maggior parte da anni non accolgono più residenti stabili.

Tenere vivo nella memoria

«A volte sui social sembra che l’abbandono abbia un che di poetico, di romantico» spiega ancora Chiara, che con il marito Tony si divide tra il paese e Sussia, cercando di conciliare le esigenze di lavoro e famiglia con il desiderio di restare in borgata il più possibile e al contempo di preservare il territorio, raccontandolo e mostrandolo a chi passa da queste parti. «E mi rendo conto che spesso è pure colpa mia, riesco a trovare il positivo in tutte le cose e mi viene più facile raccontare ciò che c’è di bello… Probabilmente io stessa molte volte dipingo sui social un’immagine della montagna un po’ bucolica». Tuttavia, dice Chiara, “abbandono” nella realtà significa solo che le tracce di intere generazioni di vite e lavoro vengono cancellate nel giro di pochi anni: «È triste, no?» commenta.

«Per questo noi, nel nostro piccolo, cerchiamo di raccontare questi territori tracciando le memorie anche di chi ci viveva prima. Quando cammino quassù, mi viene più facile raccontare anche le fatiche, i sacrifici, il retro della medaglia… E allora il far percorrere alcuni sentieri ormai in disuso, magari praticabili un po’ a fatica, fa capire quanta capillarità di presenza ci fosse: e percorrerli, oltre che impedirne la definitiva scomparsa “fisica” aiuta a tenerli vivi nella memoria, lontano da quell’inesorabile oblio in cui finirebbero».

Un turismo che aiuti a capire

Il presidio di Chiara e Tony di Ca’ del Tocio, a Sussia, si intreccia infatti da qualche tempo sempre più spesso con le iniziative di turismo esperienziale e lento sviluppate sul territorio, a partire da operatori locali che hanno deciso di mostrare San Pellegrino Terme e i suoi dintorni superando la visione più nota, cioè quella del liberty, dell’acqua e delle terme: come fanno Carmiliano Raffaele e Ivan Milesi, fondatori di Buffa Outdoor Experience, con cui accompagnano piccoli gruppi di escursionisti alla scoperta degli angoli segreti della borgata di Sussia, delle tradizioni e soprattutto dell’anima autentica di questi luoghi. Anima che, specificano, passa in primo luogo dalle persone: quelle di oggi, e quelle di ieri.

«Quando abbiamo conosciuto Chiara e Tony, ci siamo subito trovati in sintonia. Aveva la medesima idea precisa di turismo in montagna» racconta Carmiliano «E cioè un turismo che non sia predatorio, che non sovrasti i luoghi ma li incontri, impari a raccontarli e conoscerli nelle sfumature che li rendono unici. Un turismo che aiuti a comprendere, nel bene e nel male, che la montagna non è solo un paesaggio suggestivo ma anche contraddizioni, fatiche, scelte di campo, malinconie».

Carmiliano è guida ambientale escursionistica di origine siciliana trasferitosi anni fa in Lombardia per amore, mentre Ivan è un’ex scalatore professionista con alle spalle un passato da malgaro e casaro: insieme anche a Chiara e Tony e con il supporto di altri colleghi, stanno strutturando una proposta di fruizione turistica del territorio brembano capace di intrecciarsi con le genti che lo abitano. Ed ecco allora le camminate tra le borgate di San Pellegrino, alla scoperta dei “custodi della montagna” come Chiara e Tony; ecco allora l’idea della “Valle dei formaggi”, percorsi di trekking abbinati all’approfondimento sui saperi caseari della valle, con tanto di degustazione e incontro con i produttori; ecco allora la riscoperta delle antiche vie di commercio della Valle Brembana – come la Via Mercatorum – e l’organizzazione di momenti conviviali tra montagna, falò e caldarroste.

Camminando tra le borgate

Mentre ci conducono dalla frazione Vetta di San Pellegrino Terme (con la sua funicolare recentemente restaurata e le ville liberty affacciate sulla Valle Brembana) alle borgate montane di Sussia, Vettarola, Ca’ Boffelli e Alino lungo le mulattiere nei boschi e le strade agrosilvopastorali strette e tutte curve che connettono i paesini alla valle, Carmiliano e Ivan – assieme a Chiara che fa gli onori di casa attorno alla “sua” borgata – ci delineano il racconto di luoghi che portano evidenti i segni del tempo trascorso: la piccola scuola di borgata, che fu chiusa e costrinse i bambini a fare lunghe camminate su e giù dai monti circostanti per poter frequentare le lezioni; le baite dei contadini, costruite vicino ai prati e all’acqua, «perché, qui, su queste montagne, le stalle erano posizionate nei posti migliori… Mentre le case della gente, beh, quelle erano sempre nel posto più scomodo: gli animali assicuravano la sopravvivenza e dovevano stare bene, erano la cosa più importante per le famiglie quassù».

Ci mostrano il vecchio mulino, ci mostrano la differenza tra le borgate che hanno avuto la strada solo da pochi anni e a prezzo di grandi battaglie e quelle invece che l’hanno già da decenni: le prime, come Sussia, hanno subito un fortissimo spopolamento; le seconde sono state presidiate un pochino meglio, perché le macchine riuscivano ad arrivarci. E ancora, ci sottolineano il tenace lavoro di generazioni e generazioni di contadini, che tenevano bloccato l’avanzare del bosco per poter così strappare alla montagna il magro sostentamento per le famiglie e gli animali.

Presidiare un territorio

«Quando la gente viveva stabilmente in montagna, la montagna era vivibile» spiega Chiara «L’abbandono delle terre alte è tragico perché vuol dire dover partire da zero. Questo significa che, se anche qualcuno volesse tornare quassù, dovrebbe sobbarcarsi l’immane lavoro di riprendersi quegli spazi. Non è una cosa che possono fare dei singoli, sporadici testardi: dovrebbe essere un lavoro di comunità. Forse, bisognava pensarci prima di lasciare andare tutto in malora. E non parlo tanto dei singoli, quanto dell’intera società».

Chiara e Tony trascorrono più tempo possibile a Sussia, giostrandosi con lavoro e famiglia per assicurare un presidio il più costante possibile sul territorio: un presidio fatto di cura dell’ambiente, di manutenzione e di accoglienza. Oltre a loro, a Sussia abitano stabilmente soltanto il Gianni e altri due uomini anziani che vivono in case non raggiunte dalla strada agrosilvopastorale: c’è poi una piccola casa vacanze. Una situazione analoga riguarda la borgata di Vettarola, dove risiede una sola famiglia. «Un territorio si può presidiare solo se ci si è fisicamente. Quando sono in Sussia riesco a intervenire subito in caso di problemi» continua Chiara «Cade un albero sul sentiero? Lo posso levare subito. C’è un problema sulla strada? Lo posso risolvere. Il presidio dei territori montani è fondamentale: l’abbandono si vede dopo già due, tre anni, è inesorabile, si riappropria di luoghi che erano stati custoditi e plasmati dai nostri avi per generazioni».

Turismo di comunità

Ma è difficile, ammettono Ivan e Carmiliano, condannare chi ha scelto anni fa di scendere a valle e lasciare una vita poverissima a favore di un lavoro in fabbrica, per avere uno stipendio per sé e opportunità per i figli senza dover sputare fuori la vita a furia di fatica. «Con il nostro lavoro, oggi noi cerchiamo di portare le persone a conoscere questi territori, queste borgate con la loro bellezza austera e la loro storia» spiegano «Ma nel nostro progetto è soprattutto la comunità stessa che diventa motivo valido per visitare i luoghi. È il messaggio che stiamo cercando di portare avanti. Perché, guarda! La valle è già bella così com’è, non serve “aggiungere” nient’altro per il turista: semmai ora occorre fare rete, per aiutare chi viene in questi luoghi a scoprire l’umanità del territorio. Per far capire che la montagna non è solo paesaggio ma anche vite vissute, intrecci di storie e di saperi. Se non si capisce questo, che senso ha fare turismo? Che senso ha andare in montagna?».

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[NdA: questo articolo è stato pubblicato per la prima volta il 7 dicembre ’24 su L’Altramontagna]

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