«È stato emozionante rendermi conto, mentre facevo un po’ di ricerca, che stavamo portando gli animali su quello che molto probabilmente è l‘alpeggio più antico delle Alpi, e quindi del mondo». Quando Luca Marta racconta la storia dell’Alpe Pedriola, in Valle Anzasca, la voce si riempie d’orgoglio: titolare insieme al fratello Damiano dell’azienda agricola Madalù, dal 2016 hanno infatti in gestione i terreni e i fabbricati dell’alpeggio certificato come il più antico delle Alpi, risalente a prima del 999 d.C., e tengono vivo il legame del proprio paese, Calasca, con quest’angolo di montagna ai piedi del Monte Rosa. Un legame che affonda nella storia della valle e nell’economia fondante dei territori alpini.
Tornare ad allevare in Valle Anzasca
Classe ’92 e residente in Valle Anzasca, Luca ha deciso di aprire l’azienda agricola con il fratello Damiano nel 2013, dopo essere rimasto a casa dal lavoro come geometra: il nome stesso dell’azienda, Maladù, altro non è che la contrazione del loro nome e cognome. «Damiano aveva alle spalle studi di agraria e papà aveva acquistato tempo prima alcuni terreni e baite qui in valle» spiega Luca «Così ci siamo detti: perché non provare a “farli rendere”? Perché non recuperare la tradizione dell’allevamento che qui sulle nostre montagne si sta un po’ perdendo? Per prima cosa, abbiamo quindi realizzato il caseificio a norma. Con l’allevamento e la caseificazione abbiamo iniziato da zero e imparato strada facendo… Non è stato facile».
Partiti con le capre e le pecore, i due fratelli decidono dopo qualche tempo di virare sull’allevamento bovino: «Purtroppo la comparsa del lupo sulle nostre montagne è stata problematica: abbiamo avuto moltissime predazioni» ammette Luca «Tenere pecore e capre in stalla tutto l’anno non sarebbe stato fattibile, né era il tipo di allevamento che volevamo fare noi. Così siamo passati alle vacche: ora abbiamo una ventina di capi, quasi tutte di razza Rendena, più qualche Pezzata rossa… Sono razze rustiche, adatte ai versanti aspri della Valle Anzasca, anche se hanno una resa lattifera inferiore rispetto a quella di altre razze specializzate: ma per noi è importante valorizzare la biodiversità del territorio e il legame degli animali con la montagna». Insieme a Luca e Damiano, nell’azienda agricola lavorano anche la fidanzata di Luca, Alice, e alcuni stagionali durante l’estate in alpe.
L’alpeggio più antico del mondo
Nell’estate 2016, Luca e Damiano sono saliti per la prima volta sull‘alpeggio di Pedriola, ai piedi della parete est del Monte Rosa, che gli era stato assegnato in gestione dal comune. «Per i primi tre anni abbiamo portato in alpe solo vacche asciutte, perché i fabbricati presenti non erano utilizzabili per la caseificazione» racconta Luca «Poi ci siamo impuntati e abbiamo ottenuto dal comune un aiuto per la sistemazione degli edifici, potendo così strutturare un caseificio conforme alle norme Asl anche in quota».
Che tuttavia l’Alpe Pedriola fosse così antica, Luca lo scopre solo qualche tempo dopo, quando mosso dalla curiosità inizia ad approfondire la storia del luogo.
La prima testimonianza storica dell’esistenza dell’Alpe Pedriola appare infatti in una pergamena del 999 d.C., dove è indicato il passaggio di proprietà di alcuni alpeggi – tra cui Pedriola, appunto – tra due enti ecclesiastici. «Dei terreni indicati nel documento, Pedriola è l’unico dove si produce ancora formaggio al giorno d’oggi» spiega Luca.
«Quando l’abbiamo preso in gestione, sapevo che aveva una storia lunga ma non immaginavo che fosse il più antico delle Alpi: quando però mi sono accorto che non trovavo informazioni su alpeggi più vecchi, ammetto che mi sono emozionato. Anche perché, lo sai, no? La tecnica produttiva dell’alpeggio è nata sulle Alpi. Il che significa che, probabilmente, l’Alpe Pedriola potrebbe essere il più antico del mondo. Fa un certo effetto dirlo, figuriamoci poi lavorarci sopra!».
Un alpeggio per la valle
C’è un altro fattore che, per Luca e Damiano, è particolarmente significativo, e permette loro di riallacciare il loro lavoro alla storia della valle che chiamano casa: il fatto cioè che l’Alpe Pedriola non è connessa in alcun modo con la cultura Walser, perché i Walser arrivano in queste valli solo due-trecento anni dopo la data indicata sulla pergamena, ed è quindi sempre stata utilizzata dalla gente della valle. Non solo: dopo svariate compravendite nel corso dei secoli, nel 1904 l’alpeggio viene ceduto dall’allora proprietario, l’ingegner Giovanni Belli (politico molto attivo nel Risorgimento italiano), al comune insieme ad altre proprietà testamentarie, inserendo tuttavia nel testamento anche la clausola di prelazione per la popolazione di Calasca.
«Viste e considerate le dinamiche attuali di mafia dei pascoli, l’ingegner Belli ci vide lungo» commenta Luca «Con quella clausola ha protetto l’alpeggio per la gente del suo paese. Certo, va anche detto che si tratta di un alpeggio molto piccolo, lo si può caricare di una trentina di capi al massimo, e quindi non fa gola a nessuno in particolare… Ma certamente quella scelta fu lungimirante». Oltre ai fabbricati agricoli, sull’Alpe Pedriola è presente anche un rifugio con due fabbricati, lo Zamboni e lo Zappa.
Lavorare in montagna, tra burocrazia, bosco che avanza e relazione col turismo
Per Luca, la possibilità di lavorare e mantenere qualcosa che è stato creato da qualcun altro nel passato è motivo di grande soddisfazione: «Se è vero che moriamo effettivamente solo nel momento in cui la gente si dimentica di noi, allora il fatto di rimanere su un alpeggio e reiterare le azioni fatte per secoli da chi ci ha preceduto è un po’ un modo per ricordare le nostre radici e ravvivarle», racconta. «Mi riempie d’orgoglio sapere che con il mio lavoro sto provando a riallacciare un filo che va indietro di più di mille anni».
È lo stesso orgoglio che prova quando riesce a strappare al bosco che avanza quel metro quadro di prato in più: un lavoraccio, questo, perché la gente in Valle Anzasca è sempre meno e diminuisce anche chi lavora propriamente in montagna. Ciò significa che ci sono molte meno persone a combattere quella “wilderness di ritorno” che anno dopo anno seguita a restringere la valle. «Qui nella provincia di Verbania-Cusio-Ossola siamo soltanto due aziende agricole ad aver aderito al recente presidio di Slow Food dei Prati Stabili» spiega ancora Luca «Molti non riescono a comprendere l’importanza del pascolo negli ecosistemi alpini e pensano che solo il bosco sia certificazione di biodiversità. Ma non è così: qui non si parla di foreste millenarie, ma di selve di rimboschimento, che rendono l’allevamento una lotta impari contro l’abbandono».
Ma non è l’abbandono l’unico problema, per chi come Luca e Damiano cerca di restare a vivere e lavorare nelle terre alte: ci sono anche la burocrazia asfittica e insensata, la difficoltà nel creare una dimensione comunitaria attorno al territorio montano (spesso non più percepito come “bene comune”) e l’incontro-scontro con la dimensione del turismo.
Turismo e allevatori: trovare un punto di incontro
Quest’ultimo, per Luca, è un vero e proprio tasto dolente, soprattutto perché la Valle Anzasca in generale e l’Alpe Pedriola in particolare sono luoghi molto belli, facilmente raggiungibili ed economici: un mix di potenzialità che si traduce spesso in folle, maleducazione, sporcizia, tende montate sui pascoli cintati e incapacità di comprendere le istanze dell’allevatore, come la richiesta di non calpestare l’erba («siamo a 2000 metri di quota, qui l’erba non ricresce, una volta che è schiacciata è persa… E io come le nutro le vacche?») o di non dare fastidio agli animali.
«Lo dico anche con un certo rammarico» ammette Luca «ma mi pare che sia venuta meno la comunicazione di base tra ambienti diversi, così come l’umiltà necessaria per incontrarsi e provare a capirsi. La sensazione è che chi viene in montagna per svago viva una specie di “tana libera tutti” e pensi poter fare ciò che vuole: ma qui c’è gente che lavora, ci sono spazi privati e prati che servono per gli animali e che ci troviamo invece invasi dai picnic nonostante abbiamo messo cartelli e recinzioni… Per non parlare dei rifiuti».
La convivenza tra turisti e allevatori, dice Luca, è possibile solo a patto che ci siano ascolto e comprensione da entrambe le parti: «Mi rendo conto che spesso gli allevatori faticano a spiegare il proprio lavoro a chi non lo conosce» dice «ma dall’altra parte ci deve essere la capacità di ascoltare. E molti ce l’hanno, sia chiaro: ma molti no, e questo rende la convivenza tra turisti e allevatori talvolta ardua. Auspico» conclude Luca «un turismo di montagna che sia più consapevole, che scelga di salire quassù alla ricerca di qualcosa di vero e autentico, e non di una “montagna ludica”. Con la natura ci lavoro, e non è un parco giochi: è invece una dimensione che insegna il limite, la pazienza, l’umiltà. Mi piacerebbe se questi concetti di recuperassero anche nel turismo di montagna».
[NdA: questo articolo è stato pubblicato per la prima volta il 15 dicembre ’24 su L’Altramontagna]