giovedì , 21 Novembre 2024
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L’ultimo bergamino

Barba bianca, occhi chiari e attenti, una tuta leggera da lavoro sul corpo ancora vigoroso nonostante l’età. Che Carlo “Carlì” Rota, bergamino, abbia novant’anni, lo si intuisce soltanto dalla lentezza dei suoi movimenti e dal viso segnato dagli inverni che scorrono, anno dopo anno, portandosi via un poco della sua forza fisica ma di certo non del suo nerbo. Novant’anni, dicevo, di cui ottantacinque passati a fare il formaggio, e tutta la vita trascorsa su e giù dalle sue montagne con gli animali. E’ una storia d’altri tempi, la sua, che s’allunga nel presente come testimonianza di un passato vicinissimo eppure remoto, di un mondo che era il nostro ma che oggi, quasi, pare appartenere al mito.

È la storia di tutti i bergamini, i mandriani e casari transumanti che nel susseguirsi delle stagioni solcavano le valli e gli alpeggi, intrecciando il legame antichissimo tra montagna e pianura, tra città e altura.

Nato casaro

«Io sono nato bergamino. Figlio e nipote di bergamini: la mia famiglia ha sempre fatto questo lavoro», racconta il Carlì. Nel frattempo ci versa una tazza dopo l’altra di caffè corretto grappa e ci taglia fette del suo stracchino nostrano, una meraviglia morbida e dolce, senza la minima imperfezione e con tutto il sapore dell’erba e del fieno nella pasta. Classe ’33, famiglia di allevatori e casari di Locatello in Valle Imagna (BG), Carlì racconta la sua vita saltando tra lo ieri e l’oggi, affastellando episodi del passato ad accadimenti più recenti. Il suo primo formaggio, ad esempio, l’ha preparato a cinque anni insieme al nonno. «Nel lavoro di mandriani» spiega «non c’era spazio per il riposo, nemmeno per i bambini. Tutti avevano sempre qualcosa da fare. Io l’ho capito subito che ero bravo a fare il formaggio, e infatti da quella volta non ho più smesso». Vacche, formaggio, fieno, verticalità prealpine: un susseguirsi di ritualità che l’hanno plasmato, e a cui oggi non riuscirebbe a rinunciare, perché, dice, sono proprio le cose che continuano a tenerlo in vita.

«Sai quando mi sono sentito di morire? Quando sono dovuto stare tre mesi fermo, prima in ospedale e poi in casa, perché mi ero fatto male alla gamba. Io sono vivo finché riesco a fare il mio formaggio e guardare i miei animali».

Montanaro e bergamino

In barba a chi ritiene che i montanari siano burberi e chiusi, Carlì è un fiume in piena di racconti e ricordi. Del resto – ci spiega – chi faceva questo lavoro doveva spostarsi continuamente, interagire con i territori e le comunità su cui transumava, vendere il proprio formaggio e stringere accordi. Diplomatici di passaggio più che coriacei personaggi di montagna, i bergamini rappresentavano il cuore dell’allevamento orobico e della produzione casearia bergamasca. E infatti la maggior parte dei formaggi che ancora oggi raccontano l’eccellenza del territorio derivano proprio da questa tradizione antichissima… A cominciare proprio dallo stracchino, vero e proprio condensato ed espressione della cultura bergamina. Il suo nome deriva dal bergamasco stràc, cioè stanco, e il motivo è presto detto: si tratta di un formaggio morbido, che “si lascia andare”, prodotto con il latte crudo appena munto così che potesse essere conservato e trasportato con più agio.

Il rito dello stracchino

Per il Carlì, preparare lo stracchino è una specie di rito quotidiano. Delle cento mucche che aveva in passato, oggi gliene sono rimaste quattro. Non le porta più in alpeggio al Pai, sul confine tra la bergamasca e il lecchese, perché le gambe lo tradiscono e la forza non è più quella di una volta, ma continua a mungerle ogni giorno, mattina a sera, e rigorosamente a mano. «Come si fa a sentire la mucca, a capire come sta e se hai munto tutto bene, se ci attacchi quelle mungitrici meccaniche?» brontola. «Il latte va sentito, va osservato, mungere è un atto quasi sacro, ci deve essere uno scambio. Si entra in contatto con l’animale: mica puoi farlo fare a una macchina!». Per tutta la vita, ci spiega, le mucche le ha sempre munte a mano. «Per farle tutte e cento, ci si mettevano ore. Due volte al giorno, ovviamente. Alla fine, non ti sentivi più le dita e il braccio, da tanto che eri stanco».

Fatica e legame: sono queste le parole che tornano più spesso nei discorsi del Carlì. Il legame con i suoi animali, che si rifiuta di nutrire con i mangimi industriali perché «l’uovo viene dal becco, e il sapore del formaggio da ciò che mangiano». E poi, la fatica della vita da allevatore montano, che mai una volta sminuisce né tenta di glorificare.

La vita durissima da bergamino

Quella dei bergamini non era un’esistenza facile: certo, non era povera, perché – racconta Carlì – da mangiare non mancava mai. Ma era difficile, durissima. Le oltre cento mucche della famiglia andavano munte tutte a mattina e a sera e il latte trasportato e lavorato immediatamente. A questo si aggiungevano poi il fieno da tagliare e trasportare, il tutto su sentieri e tracciati impervi e quasi verticali e caricandoselo sulle spalle in gerle pesantissime, e le incombenze quotidiane, la cura degli animali, il formaggio da stagionare e da vendere. Una vita che non faceva sconti, e segnava irrimediabilmente la quotidianità di chi la viveva.

Carlì ricorda episodi di paura – ad esempio quando si ribaltò sul pendio con la gerla del fieno, e oltre a farsi male alla schiena fu anche sgridato perché aveva lasciato il carico per strada – e di rammarico. «Io avrei voluto studiare. Ma il giorno dell’esame dovevamo essere già in alpeggio, altrimenti avrebbero dato le concessioni ad altri mandriani. Così non ho potuto farlo. Mi è dispiaciuto. Non sai quanto ho pianto, quella volta. Ero così triste che nel percorso verso l’alpeggio dimenticai in giro una delle nostre lanterne: la appoggiai per terra e me la scordai lì, perché c’avevo la testa altrove. I miei si arrabbiarono moltissimo, e dovetti tornare indietro al buio a prenderla. Sai, per legge eravamo obbligati ad avere tre lanterne: una all’inizio della mandria, una alla fine e una al centro: se non ce le avevamo, potevamo prendere multe. Per questo si arrabbiarono».

Come mai non fece l’esame l’anno successivo?, gli chiedo. Lui si stringe nelle spalle, come a segnare un’ineluttabilità di fondo. «Perché cambiammo cascina di appoggio per la stagione fredda, in pianura, e non vidi più la maestra che in inverno mi aiutava a studiare. Da solo, non ci sarei mai riuscito: il lavoro con gli animali era troppo, e troppo faticoso. Non ce la feci. Ma va bene così: in fondo amo questo lavoro, non potrei fare altro. Sono nato per gli animali, così diceva mia mamma, e credo avesse ragione».

«Si è ciò che si nasce», conclude, mettendoci in mano due stracchini e un primosale appena fatto prima di salutarci. «E io, dopotutto, sono nato bergamino».

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