«Questo è un lavoro che ci si porta dentro. È difficilissimo iniziare quando si è già adulti, perché ci sono cose, nella cura degli animali, che si notano solo quando ci si cresce insieme. Per fare questo lavoro, credo, devi esserci nato». Nella sua casa all’imbocco di Chignolo d’Oneta, borgata della Valle del Riso (BG), Evenzio Borlini ci versa tazze di caffè scurissimo e intanto ci racconta la sua esperienza di allevatore, contadino e casaro. L’ho contattato perché volevo provare a capire qualcosa in più su questa piccola vallata laterale alla ben più nota Valle Seriana: una valle angusta, la Valle del Riso, e dall’aria impervia, con boschi che salendo di quota digradano in begli alpeggi e pascoli punteggiati di malghe e cascine per poi impennarsi nelle pietre aguzze del Monte Alben e dell’Arera. Per raggiungere Chignolo d’Oneta bisogna superare nel fondovalle il torrente Riso e poi salire di tornante in tornante fino alla piccola folla di case, poggiate su un pianoro che ha il sole in faccia tutto il giorno e le spalle protette da alte montagne. Evenzio e la sua famiglia li ho “trovati” su Instagram, ed è stata la figlia Veronica a consigliarmi di parlare con suo padre. «Lui ti può raccontare tutto, vedrai», mi ha detto. «Non solo sul nostro lavoro, ma anche sul perché lo continuiamo a fare nonostante tutto».
Nonostante tutto
C’è una cosa che accomuna gran parte delle testimonianze di allevatori che raccolgo settimana dopo settimana, ed è quel “nonostante tutto” che ritorna, implacabile, come un mantra. E forse sono proprio quelle due parole a racchiudere il senso di un lavoro – quello del piccolo allevatore di montagna, innamorato del proprio territorio e mosso prima dalla passione viscerale che dal guadagno – che oggi subisce i colpi di un sistema ostile, di una burocrazia mastodontica e di una politica assente.
«Io ho iniziato da bambino» racconta Evenzio. «La famiglia di mia madre aveva le mucche e i miei zii erano praticamente cresciuti in alpeggio, mentre la famiglia di mio padre teneva qualche animale solo per sussistenza, com’era abitudine per tutte le famiglie della valle. In passato era così: tutti avevano gli animali, poi c’era chi lo faceva proprio per lavoro. In generale, la situazione era molto diversa: bastavano una decina di mucche per campare, e le famiglie erano molto numerose, avevano un sacco di figli… Significava più manodopera. Oggi sono cambiate molte cose e anche fare questo lavoro è diventato più difficile e impegnativo».
Evenzio e la sua famiglia gestiscono l’azienda agricola Abbadini Eugenia: allevano vacche da latte e da carne, pecore e capre (queste ultime soprattutto per la vendita di capretti e per tenere pulito il bosco e i prati), che in estate conducono in alpeggio e in inverno tengono nelle stalle poco distanti dal paese, nutrite con il fieno locale dei prati concimati esclusivamente a letame: insomma, tutto naturale e a chilometro zero, frutto di un grande rispetto per gli animali e di amore per il proprio lavoro. L’azienda produce inoltre squisito formaggio vaccino locale, come formaggelle, stracchini, stagionati. A lavorare nell’azienda sono soprattutto Evenzio e sua moglie Eugenia, aiutati dai figli: Veronica, ad esempio, si occupa soprattutto delle pecore, tra la pianura e l’alta valle, mentre gli altri due figli hanno anche altre occupazioni e supportano la famiglia quando possono.
«Il problema dei giorni attuali» continua Evenzio «è che è tutto sbilanciato. Laddove fino a qualche decennio fa bastavano poche mucche, oggi ne servono minimo una cinquantina per riuscire a produrre abbastanza latte per rientrare nelle quote latte, per accedere ai contributi e per restare nel giro. Ma tanti animali significano anche più spazio dove tenerle, più investimenti di soldi e di lavoro… Significa anche scegliere che tipo di latte vuoi avere, e come vuoi trattare i tuoi animali». L’uomo ce lo spiega senza tanti giri di parole: lui, ad esempio, tiene soprattutto vacche di razza bruna alpina, una razza locale che produce meno latte ma di qualità organolettica più alta… Ma chi deve rientrare nelle quote latte questa razza non la vuole, perché è poco produttiva in termini di quantità.
«Inoltre, pur di rientrare nelle quote e riuscire a guadagnarsi qualcosina per campare e tirare avanti, molti si trovano a spingere a dismisura la produzione casearia: una cosa che non fa bene agli animali, non sono mica delle macchine! Poi si ritrovano con animali che in cinque, sei anni sono sfiancate, distrutte, da mandare al macello. Non sarà mica un modo di lavorare, questo? Noi abbiamo vacche che a dodici o tredici anni ancora salgono in alpeggio, perché sono sane e tenute nel rispetto dei loro ritmi naturali».
Territorio frammentato e difficoltà di logistica
Parlare con Evenzio significa toccare con mano le fatiche, le problematiche e soprattutto la perseveranza di chi porta avanti il lavoro di allevatore in territori montani marginali, fuori dai circuiti di massa del turismo e ancora legati a tutte le difficoltà pratiche di valli e montagne che sono sì bellissime, ma anche ardue e talvolta ingestibili. Niente retorica e niente romanticismo, nelle parole di montanari tutto d’un pezzo come quest’uomo solido e allegro, radicato e concretissimo: non c’è spazio per gli idealismi, dice, quando lavori con gli animali e devi imparare, anno dopo anno, a conoscerne le necessità, a organizzare spostamenti e rifornimenti alimentari, a saper comprendere i segnali che lanciano e le criticità che potrebbero insorgere. Un esempio su tutti? «I piedi» spiega l’uomo. «Prima di salire in alpeggio, agli animali bisogna tagliare le unghie, altrimenti quando vanno al pascolo si spezzano e rischiano di azzoppare l’animale, che così non riesce più a tenere il passo della mandria, mangia meno, deperisce…
«Gli animali non sono motori che si possono spegnere e accendere a piacimento o di cui basta leggere il manuale di istruzioni. Ci va una vita intera per imparare a conoscerli e a gestirli. Ed è un lavoro durissimo, oltre ogni immaginazione».
Durissimo perché richiede di esserci 365 giorni all’anno, festività e malattie comprese: «perché alle mucche mica interessa se è Ferragosto e tu vuoi fare festa con gli amici: hanno bisogno comunque di essere munte al mattino e alla sera». Durissimo perché – almeno da queste parti – le stalle sono piccole e i lotti di prato e di terreno sono spezzettati e sparsi tra i vari pendii: «significa fare il doppio o il triplo del lavoro, sia per nutrire gli animali i inverno, sia per fare il fieno in estate». Durissimo perché le condizioni in cui si porta avanti l’attività non sono mai comode, anzi: «In passato il territorio era vissuto da tante persone, che contribuivano a tenere pulite e praticabili anche le strade agrosilvopastorali o le mulattiere… Oggi non è più così. Qui ad esempio ci siamo solo noi e dobbiamo mantenere noi i sentieri e le strade per raggiungere le stalle… Inoltre sono zone ripide e scoscese e il trattore serve a poco: quasi tutto va fatto a mano e per spostare le balle di fieno ci vanno viaggi infiniti perché le possiamo spostare solo una o due alla volta». Durissimo perché, anche, le amministrazioni e le istituzioni sono spesso molto miopi sulle esigenze di chi resta a tenere vivo il territorio anziché andarsene: «Parlano di montagna come se si trattasse di un blocco unico e tutto uguale, ma ogni territorio è a sé».
Hai mai pensato di abbandonare questo lavoro?, gli chiedo allora, perché a volte fatico a comprendere come una tale sequela di problemi possa non scoraggiare anche il più entusiasta degli allevatori. Ma Evenzio scuote la testa con un sorriso che pare dire “che vuoi farci”.
«Quando sono stanco» ammette «mi viene voglia di piantare lì tutto. Ma c’ho questo tarlo in testa, questa passione, che mi impedisce di smettere. Magari brontolo, ma il giorno dopo sono di nuovo lì, con i miei animali. La prima cosa è la passione: se non ce l’hai, questo lavoro non lo fai nemmeno se ti obbligano».